sabato 30 gennaio 2010

LUIGI FEDERZONI (1878-1967)

I Personaggi del Fascismo



LUIGI FEDERZONI (1878-1967)

Di nobile famiglia, Luigi Federzoni nasce a Bologna il 27 settembre 1878, figlio di Giovanni, Professore d’Italiano e studioso di Dante, ed Elvira. Eccellente studente, dopo aver frequentato il Liceo si iscrive all’Università della sua città, dove conosce Carducci, e in breve tempo riesce a laurearsi in Lettere e poco dopo in Giurisprudenza (1900).
Giovinetto, si appassiona alla letteratura e alla pittura; scrive romanzi, opere teatrali e dipinge. Accantonata la passione artistica, intraprende l’attività di giornalista e sposa Luisa Melotti Ferri, detta Gina. Nei suoi primi scritti giornalistici, svolti nei principali giornali nazionali, Federzoni si fa promotore di un’unificazione di tutte le molteplici tendenze nazionalistiche che in quei primi anni del nuovo secolo andavano formandosi. Federzoni fu il primo ad intravedere che un compattamento di queste forze per certi versi ancora molto eterogenee avrebbe creato le basi per un grande movimento di massa. Questo impegnativo lavoro culminò nel 1910, quando Federzoni riuscì a costituire l’Associazione Nazionalista Italiana (ANI) in cui ritrovansi quegli uomini appartenenti un po’ a tutte le anime del composito nazionalismo italiano, che in seguito avrebbero trovato compiutezza nel Fascismo.

Tra questi vi erano nazionalisti della sinistra storica crispiana, nazionalisti della destra storica, nazionalisti Cattolici, ognuno con le sue esperienze e i propri principî, ma tutti accomunati da quella volontà di cambiamento nazionalista che col suo impeto avrebbe dovuto “rimodellare” l’intera Nazione. Queste premesse portarono alla stesura di un programma comune. Nel 1911 Federzoni fonda il giornale L’Idea Nazionale, che diventa subito il punto d’incontro e di dibattito tra tutte le correnti del nazionalismo Italiano, auspicando il passaggio dall'associazionismo alla fondazione vera e propria di un Partito Nazionalista. Questo processo fu lungo e laborioso e in particolare si attuò col convegno di Roma del 1912, che proclamò l'interventismo in Libia, e con quello di Milano del 1914, con cui l’associazione divenne definitivamente Partito Nazionalista. Intanto già nel 1913 Federzoni era stato eletto Deputato, primo esponente nazionalista a giungere alla Camera. In quegli anni la nuova cultura che si era sviluppata attorno a riviste quali Il Regno e La Voce, con i suoi Verga, De Amicis, Rapisardi, De Sanctis, D’Annunzio, Pascoli, Pirandello, Borgese, Marinetti, Gentile, Croce si ritrovò largamente coinvolta nel nuovo progetto nazionale e lo stesso Federzoni ebbe numerosi contatti con tutte queste personalità. Federzoni contribuisce a superare il “dibattito negativo”, limitato alla critica del positivismo, della democrazia, del liberalismo, del socialismo materialista, per trasformarlo in “dibattito positivo”, con l’individuazione cioè di obiettivi, metodi e strumenti sociali e politici.

Tra i fautori di questa trasformazione troviamo, accanto al Federzoni, Enrico Corradini con tutti coloro che si ritrovarono intorno al giornale L’Idea Nazionale e cioè Maraviglia, Coppola, Forges Davanzati e dal 1914, Alfredo Rocco, il celebre giurista del futuro Codice Penale. Il presupposto sociale che Federzoni individua è quello dell'unione fra “élite di classe”: élite proletaria, borghese, aristocratica. In particolare si assiste ad una volontà di rigenerare l’intera classe borghese, il cui compito politico primario appare ora quello di sostituire le vecchie élite borghesi decadenti del trasformismo giolittiano e di opporsi fieramente all’avanzata marxista.

Da questa impostazione derivavano sia la supremazia della politica estera sulla politica interna, sia il bisogno di uno Stato forte, disciplinato, che trovava i suoi simboli unificanti nella Monarchia e nell’Esercito.

Le ricadute ideali e politiche di questa impostazione non erano di poco conto. La definizione dell’apparato ideologico del partito, condusse a superare il semplice patriottismo e ad abbandonare vecchi baluardi del Risorgimento come l’anticlericalismo e il liberalismo economico, ritenuto prodotto dell’individualismo, figlio, quindi, della stessa pianta da cui nasceva il socialismo. Proprio in quest’ottica vanno interpretate alcune defezioni dal partito, avvenute tra il 1911 e il 1914, giudicate necessarie da Federzoni: uscì dal partito Sighele, che voleva ridurre il nazionalismo all’irredentismo; se ne andarono Arcari, Rivalta e Valli, capifila dell’associazionismo e del vecchio nazionalismo anticlericale di stampo risorgimentale; se ne uscì l’intera ala liberale, confluita poi nel liberalismo giolittiano.

Dopo il successo alle politiche del 1913, il partito di Federzoni conquista numerosi seggi alle elezioni amministrative del 1914. Con lo scoppio della Grande Guerra il Partito Nazionalista è in prima fila nella campagna interventista e Federzoni sprona con dibattiti tutto il mondo culturale all’intervento. Col 24 Maggio del ’15 Federzoni parte volontario nell’esercito combattendo per quasi tutto il quadriennio e ottenendo una medaglia d'argento al valore militare.

Dopo la Vittoria, contemporaneamente alla nascita delle Camicie Nere Fasciste, anche Federzoni decide di costituire un gruppo paramilitare che funga da braccio armato del Partito Nazionalista: sono le Camicie Azzurre, che giunsero nel 1922 al numero di 30.000 unità ed ebbero l'azzurro dal colore della Real Casa; il loro motto fu “sempre pronti” e l'inno “Fiamma Azzurra”, il cui ritornello suona: Noi giuriam con viva gioia/ di combattere e morire/ per l'azzurro dei Savoia/ per l'Italia e per il Re.

Durante i turbolenti anni del primo dopoguerra si assiste al lento e talora contrastante avvicinamento tra il Nazionalismo di Federzoni e il Fascismo di Mussolini. Tuttavia già dalla comune lotta interventista, enorme rimaneva lo jato fra il concetto mussoliniano di guerra rivoluzionaria e quello federzoniano di guerra imperialista. Di un vero e proprio problema di rapporti fra Fascismo e Nazionalismo, pertanto, si può parlare fino al 1921, quando si attua la svolta decisiva nell'azione che porterà alla Marcia su Roma. Infatti con le elezioni che portano in Parlamento 35 deputati Fascisti eletti nei Blocchi Nazionali e col congresso Fascista dell’Augusteo, del novembre 1921, si certifica la definitiva alleanza di ferro del Fascismo col Nazionalismo, di Mussolini con Federzoni.

Tuttavia a porre per primo il problema di una fusione tra i due movimenti non fu né Mussolini né Federzoni, bensì il futuro Quadrumviro Cesare De Vecchi nel corso di un’intervista rilasciata all’Idea Nazionale il 16 novembre 1921.

Federzoni, dal canto suo, raccolse la proposta sottolineando però che: “primo: i nazionalisti sono fermamente Monarchici mentre i Fascisti sono ancora agnostici; secondo: nonostante le sue straordinarie benemerenze, il Fascismo non ha ancora acquistato vera consistenza e organicità di partito politico e non potrà farlo che identificandosi col nostro Nazionalismo”. Così l'altro esponente nazionalista di spicco, il siciliano Prof. Francesco Ercole che, sempre nel 1921 nel suo articolo “Contro un’affrettata fusione”, rimarcava i pericoli che scaturivano dalla ancora presente mancanza Fascista di “una concezione etica e integrale della vita”. Da parte Fascista, il 2 febbraio 1922, in un articolo sul Popolo d’Italia intitolato "Per intenderci", a Federzoni ed Ercole rispondeva Dino Grandi, capovolgendone le tesi: non era il Fascismo che doveva identificarsi col Nazionalismo, ma, al contrario, era questo che doveva modificarsi e venire sulle posizioni del Fascismo: “Mentre il Nazionalismo è nato dalla elaborazione dottrinaria per giungere alla negazione pratica, si potrebbe quasi dire che il Fascismo è nato dalla negazione dottrinaria, per giungere all’elaborazione pratica.

In un periodo storico che afferma l’incontrastato dominio delle grandi correnti popolari, ieri assenti, ed oggi quanto mai volitive, presenti e chiamate ad operare entro i partiti, il Fascismo altro non può essere se non l’espressione di questa grande realtà storica”. Federzoni rimase assai colpito dall’articolo di Grandi e ne parlò con Mussolini, il quale, dopo un’iniziale cautela, accoglierà totalmente le tesi grandiane.

Intanto il 23 Marzo 1922 Federzoni diventava Vicepresidente della Camera dei Deputati. Avvicinandosi la Marcia su Roma, l'unione dei movimenti si accelera. Federzoni, parlando al Lirico di Milano il 15 ottobre 1922, ribadì l’assoluta e imprescindibile importanza della difesa della Monarchia, la necessità di un governo “in una parola di reazione”, ottenibile anche con una Rivoluzione. Poco dopo al Teatro San Carlo di Napoli analogo discorso teneva Mussolini, ribadendo “assoluta fedeltà e dedizione a Casa Savoia”. Lo stesso giorno, sempre a Milano, con tempismo non casuale, si teneva una riunione delle Camicie Azzurre sull’atteggiamento da tenere se i Fascisti fossero passati all’azione. Le Camicie Azzurre risolsero subito: “affianco alle Camicie Nere”.

Con la gloriosa Marcia su Roma del 28 Ottobre 1922, ove Camicie Nere e Camicie Azzurre compirono insieme la Rivoluzione, furono ultimate le ultime formalità per la fusione e nel 1923 le Camicie Azzurre confluivano nelle Camicie Nere e nella MVSN, col preciso compito della difesa del Regime Fascista indissolubilmente legato a Casa Savoia. Tutta la dirigenza del Partito Nazionalista confluiva nel PNF, rivestendone subito importanti cariche. In particolare Federzoni fu subito ammesso al neonato Gran Consiglio del Fascismo.

Il 31 Ottobre 1922 Federzoni, dimessosi da Vicepresidente della Camera, entra nel primo governo Mussolini quale Ministro delle Colonie (31 ottobre 1922-17 giugno 1924), per poi diventare nel secondo gabinetto Ministro dell'Interno (17 giugno 1924-6 novembre 1926) e nuovamente Ministro delle Colonie (6 novembre 1926-18 dicembre 1928). In tali vesti ottiene importanti successi in particolare nell’opera di normalizzazione seguita alla Rivoluzione e durante la “crisi Matteotti”. Nei primi mesi del 1927 Federzoni, da poco tornato al dicastero delle Colonie, inizia a scrivere i suoi Diari, preziosa autobiografia, ove annota puntualmente, ora per ora, le proprie giornate, i propri incontri, le proprie impressioni. Ne emerge un quadro interessante e talvolta ironico e malinconico sulla difficoltà dell’azione di governo, constatando come la scorrettezza di un solo uomo possa talora capovolgere la correttezza di molti uomini. In questo suo secondo mandato alle Colonie, Federzoni si occupa del riassetto amministrativo della Libia, in vista di una sua piena adesione al Regno d’Italia come regione vera e propria.

Tuttavia dai suoi Diari si nota una certa insofferenza per lo scarso zelo con cui fu accolto il progetto di legge: “ho l'impressione che nessuno (…) si sia reso conto dell'importanza storica e del significato di novità di questa legge, rispetto alla posizione dell'Italia nel Mediterraneo”. Il 22 Novembre del 1928 Federzoni è nominato Senatore del Regno. Del Senato diventa Presidente il 29 aprile 1929, diventando la terza carica del Regno per circa 10 anni, fino al 2 marzo del 1939. In tale veste assurge a grandissimo prestigio, anche internazionale.

Incrementa in modo impressionante la sua attività culturale, diventando Presidente dell'Istituto di Studi Romani (1929-1931), Presidente della Società anonima letteraria Nuova Antologia (1931), Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei (6 maggio 1935-4 gennaio 1946), Presidente dell'Istituto Fascista dell'Africa Italiana (1937-1940), Presidente dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana (17 marzo 1938-6 ottobre 1943), Presidente dell'Accademia d'Italia (1938-1943) dopo Marconi e D’Annunzio. Tra le sue attività in Senato si segnalano la Presidenza della Commissione per il Regolamento Interno, nella cui veste contribuisce a dar sempre maggior lustro all’Alta Camera, e la partecipazione alla Commissione dell'Educazione Nazionale e della Cultura Popolare dal 1939 al 1943.

Grande ruolo ebbe inoltre Federzoni come Consigliere di S. M. il Re e come intermediario nei rapporti col Vaticano, sia nell'avvio del processo di Conciliazione e di ratifica del Concordato, in particolare grazie ai suoi contatti con Mons. Luigi Haver, sia in seguito per dirimere i problemi sorti circa l’associazionismo Cattolico. In questo periodo intraprende numerosi viaggi nel mondo, abbinando la politica al viaggio di piacere. In particolare in Germania ha un interessante incontro col neo-cancelliere Hitler.

Ecco il ritratto che ne fa nei suoi Diari: “È un tipo franco, vivace, dai capelli neri impomatati, con una ciocca quasi napoleonica sulla fronte. Porta i baffetti neri tagliati a spazzola e ridotti alla minima estensione sotto il naso. Parla gesticolando, e con un accento incisivo e perentorio. La figura fisica e il modo di fare sono assai piú dell'austriaco che del tedesco. Mostra un'assoluta sicurezza di sé. Piú che un demagogo, mi sembra un allucinato, ma comprendo come, anche perché tale, egli possa magnetizzare le folle. Possiede un'inarrestabile abbondanza di parole (...) Egli dice, in sostanza, che per i nazionalsocialisti il problema non è la lotta per la conquista del potere ma l'azione costruttiva dopo tale conquista (...). Sulla prossima vittoria dei nazionalsocialisti Hitler non ha dubbi”,Ostilissimo alle leggi razziali, considerate totalmente estranee alla Nazione ed eticamente errate, si stupì di come, nonostante la manifesta opposizione della maggioranza dei gerarchi e dei parlamentari, esse avessero comunque ottenuto l’avvallo necessario per la promulgazione; in proposito ebbe violenti scontri con Farinacci e iniziò a manifestare i primi dissidi col Duce. Fieramente contrario all’alleanza con la Germania e alla partecipazione alla guerra, si scontrò apertamente con Mussolini, ma rimase inascoltato. Risoltosi ad appoggiare un cambio di governo, fu tra i promotori dell’ordine del giorno Grandi del 25 luglio 1943.

Chiuso improvvisamente il Senato per decreto del nuovo Presidente del Consiglio Badoglio, si ritirò presso l’Ambasciata portoghese del Vaticano, da dove si scagliò violentemente contro la neonata Repubblica Sociale Italiana e Mussolini, da lui definito “traditore dell’idea”. Condannato a morte in contumacia al processo di Verona del 1944, rimase in Vaticano fino al 1947, dedicandosi alla stesura di libri e memoriali, tra cui: Memorie inutili della famiglia Federzoni, curiosissima raccolta di avvenimenti giovanili apparentemente insignificanti, ma ricchi di morale; Le memorie di un condannato a morte, che fu in seguito ampliato dall’autore quale Italia di ieri per la storia di domani, lucida e drammatica analisi degli avvenimenti dal settembre 1943 al giugno 1944: in esso Federzoni si scaglia contro i repubblichini e afferma che laddove per Mussolini egli, con gli altri, rappresentava il traditore, per lui era Mussolini che, con la sua politica demagogica e con l'aver trascinato l'Italia nell'avventura bellica, aveva tradito i presupposti su cui tutti loro avevano costruito il Fascismo e nei quali avevano creduto, poiché questo falso Fascismo degli ultimi anni “non attuò, bensí sciupò, travisò e infirmò, con una volgarizzazione superficiale di tono demagogico, un organismo di idee in cui era un'essenza classica di ordine, di giustizia e di grandezza morale”, e ancora “Dal canto mio, alla vigilia della Marcia su Roma, l'8 ottobre 1922, parlando al Lirico di Milano in nome dei miei amici, avevo francamente indicato a quali condizioni i nazionalisti avrebbero assecondato un'eventuale azione di governo dei Fascisti: rafforzamento dell'autorità dello Stato sopra i partiti; impero assoluto della legge; riconoscimento della Monarchia come presidio fondamentale dell'unità e continuità della Nazione; tutela dei valori religiosi ed etici; elevazione materiale e morale dei lavoratori, accompagnata a ferma difesa dell'ordine sociale; indirizzo economico e finanziario antidemagogico.

Avrò torto; ma io sono rimasto ligio a quei principî, nei quali allora pareva che tutti convenissimo”. Senza mezzi termini Federzoni afferma che era stato proprio Mussolini “ad aver contribuito per il 90 per cento al collasso dell'Esercito, con la sua opera incompetente e incoerente di Ministro delle Forze Armate per oltre quattordici anni e poi di comandante supremo in guerra, e ad aver portato il paese alla disfatta”. Ed era proprio questo che non gli veniva perdonato e che aveva portato i 19 membri del Gran Consiglio, la maggioranza, ad esautorarlo e molti altri a negargli la fiducia che gli avevano dato per vent'anni.

In questa posizione, Federzoni riassume in sé in modo veemente l'atteggiamento di quella classe politica e intellettuale che aveva creduto nel Fascismo e accusava Mussolini di “aver dilapidato follemente il patrimonio dell'unità, dell'indipendenza e della potenza d'Italia, formato con lo sforzo secolare della Nazione; il patrimonio che egli stesso, nei primi anni del suo governo aveva accresciuto e perfezionato”. Un patrimonio che era stato talmente disperso dalla disastrosa condotta della guerra da portare gli italiani, e Federzoni in prima persona, addirittura all’odio totale verso i repubblichini e i tedeschi ed a sperare in una loro sconfitta totale.

Mentre Mussolini finiva “la sua carriera come mercante di schiavi, lasciando che i tedeschi rastrellino ragazzi per il loro esercito. (…) Si pone all'Italia il problema di risorgere: bisogna che gli Italiani, senza dipartirsi dalla loro silenziosa discrezione, si facciano nuovamente conoscere e stimare, ossia dimostrino di essere, come possono essere, un popolo serio, un popolo che sa ancora vigorosamente combattere per una giusta causa: il popolo del Piave e di Vittorio Veneto”. Questo diario esprime il travaglio di una generazione che aveva visto crollare definitivamente i propri ideali e che ora si interrogava sul proprio futuro.

Da questo punto di vista, Federzoni sembrerebbe apprezzare le mosse dei partiti antifascisti e perfino dei comunisti, a cominciare da Togliatti e dal suo appello affinché si cessasse di rivendicare l'abdicazione del Re: con questa richiesta si poneva “termine e rimedio alle inconcludenti diatribe dei vecchi antifascisti ed ex-fuorusciti, esasperati dai loro asti settari, inchiodati alle loro negative posizioni dottrinarie”. Federzoni intuiva che una politica di pacificazione e “ogni cooperazione”, “compresa questa dei comunisti”, potevano essere una soluzione per il futuro del paese: questo perché ad esso, all'indomani della guerra, si sarebbero poste due alternative: “O l'Italia avrà ritrovato nei nuovi cimenti il vigore spirituale che essa destò in sé venticinque anni or sono, e vincerà anche la minaccia del sovvertimento interno; o avrà fallito pure quest'altra prova, e dovrà correre l'alea di diventare, come la nascente Jugoslavia, un pianeta un po' piú grosso del sistema di cui Mosca è il sole”.

Le vicende personali dell'ex terza carica del Regno, condannato all'ergastolo dall'Alta Corte di giustizia nel maggio 1945, avrebbero tuttavia esasperato l'astio nei confronti dei nuovi partiti al governo del paese e annullato ogni sentimento di conciliazione: il fatto di aver subito due condanne antitetiche (la condanna a morte al processo di Verona per tradimento del Fascismo e quella all'ergastolo dell'Alta Corte per essere uno dei massimi esponenti del Fascismo stesso), lo “specialissimo accanimento di autorevoli antifascisti, succeduto immediatamente alla spietata persecuzione mussoliniana”, lo portavano a vedere nel proprio caso personale “un riflesso sia pur minimo dell'atroce marasma di questa Italia che non trova pace neppure con sé stessa, avendo ricevuto in eredità dalla guerra maledetta la discordia, che oggi pare insanabile, dei suoi figli”. Che erano i motivi per i quali, all'indomani del comunicato del mandato di cattura contro di sé e altri gerarchi del settembre 1944, aveva deciso di non costituirsi: “non ho alcuna fiducia - scriveva in una lettera per Bonomi - nell'imparzialità del giudizio che dovrei affrontare”, dato “il preconcetto della mia reità, proclamata prima e all'in fuori d'ogni conoscenza dei dati di fatto”. In un Memoriale difensivo del luglio 1944 rivendicava la sua ligia posizione di “Fascista degli ideali e della buona fede”, opposto ai fascisti della convenienza o del fanatismo servile, capeggiati da Pavolini e Farinacci.

Disgustato anche dai partiti antifascisti ora al potere, nel 1947 Federzoni lascia il Vaticano per il Brasile, ma torna in Italia per difendersi dalla condanna in contumacia a 30 anni subita dall’Alta Corte per il giudizio dei reati fascisti; viene così amnistiato nel dicembre dello steso anno. Nella sua deposizione, in cui si scaglia violentemente contro i comunisti, ribadisce tra l’altro la totale estraneità della Monarchia ai fatti del 25 luglio 1943: “il crollo di Mussolini e del Fascismo è avvenuto per il voto del Gran Consiglio. Contrariamente a quanto è stato piú volte raccontato (...) Dino Grandi e io, promotori del voto, agimmo di nostra spontanea iniziativa, all'infuori di qualsiasi inspirazione della Corte o dello Stato Maggiore. (...) Per parecchi anni il compianto Italo Balbo, io e - compatibilmente con la sua continua assenza dall'Italia - Dino Grandi eravamo stati chiamati i «frondeurs» del Gran consiglio, chiaramente avversi all'indirizzo totalitario della politica interna e a quello filonazista della politica estera. (...) Nel luglio 1943 un certo rinnovamento apportato di recente alla composizione del Governo e, per riflesso, in quella del Gran Consiglio, mediante l'immissione di elementi ottimi, come De Marsico, Pareschi, Bastianini, Albini e altri, e principalmente l'impressione di sgomento prodotta dai disastri della guerra, autorizzava la speranza che un voto di biasimo dei funesti errori politici e militari che li avevano causati potesse finalmente raccogliere una maggioranza.

E cosí, infatti, avvenne”, nella speranza di una purificazione del Fascismo. Stabilitosi definitivamente a Roma negli anni ’50, Federzoni proseguì la propria attività letteraria, appoggiando politicamente il Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica (PDIUM), senza tuttavia impegnarsi più nella politica attiva. Morì a Roma il 24 Gennaio del 1967 all’età di 88 anni.

(1878-1967)

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