mercoledì 22 settembre 2010

Relazione di Giuseppe Bottai per Benito Mussolini su come strutturare la pace

20 Luglio 1940

Duce,
ritengo mio dovere farTi un rapporto, desunto da mie osservazioni e deduzioni circa l'attuale momento politico e il compito particolare della cultura italiana nella preparazione della pace, desunte da miei contatti d'ufficio con il mondo universitario italiano. Forse, non avranno alcun interesse per lo svolgimento del Tuo pensiero; ma le vorrai considerare per quel poco che valgono.
Prima di entrare in argomento occorre premettere alcune osservazioni sulle tendenze politiche della nostra cultura e sul suo atteggiamento nei riguardi del Fascismo. Poiché, se è vero che in venti anni di Fascismo le nuove concezioni hanno sempre più inciso sulla vita del Paese trasformandola radicalmente, è pur vero che, per quel che riguarda la cultura, si è venuto via via approfondendo un contrasto, che ha irrigidito gli intellettuali in uno sterile conservatorismo. Di un movimento culturale fascista si è potuto parlare nei primi anni della rivoluzione, sulla base di alcuni elementi nazionalistici e idealistici, concretatisi nelle riforme del 1925 e poi sboccati nelle prime affermazioni del corporativismo, prima e dopo la Carta del Lavoro. Col declino del nazionalismo e dell'idealismo il movimento culturale fascista si è orientato poi in senso sempre più corporativistico, sviluppando il lato più propriamente rivoluzionario della nuova concezione sociale. È stato, forse, questo il periodo più fecondo della collaborazione: quella frazione della cultura italiana che vi ha partecipato è riuscita a porsi davvero su un piano rivoluzionario e a costringere la più grande frazione conservatrice a scendere sul terreno della polemica e a collaborare anch'essa indirettamente. Gli anni che vanno dal 1932 al 1935 sono da questo punto di vista i più ricchi di risultati e la nostra ideologia rivoluzionaria ha avuto allora un'influenza notevole anche all'estero, in primo luogo sul nazionalsocialismo, che, giunto al potere nel 1933, si rivolgeva al Fascismo per seguirne l'esempio.
Ma, sopravvenuta la guerra d'Etiopia, la cultura italiana ha taciuto rinunciando a ogni ulteriore collaborazione. Sul piano speculativo la critica sempre più rigorosa condotta contro l'idealismo lo ha estraniato definitivamente dal processo rivoluzionario. Sul piano sociale la fine della discussione intorno ai principi del corporativismo ha arrestato l'elaborazione della nuova scienza politica ed economica. Messa a tacere la minoranza rivoluzionaria, la vecchia cultura conservatrice si è trovata senza avversari e si è rafforzata nelle sue posizioni, mascherandosi in gran parte con un ossequio estrinseco e adulatorio nei confronti del Regime.
Siamo giunti così al settembre scorso. Quattro anni di silenzio ostile della cultura non potevano non influire sulla coscienza della Nazione. Sempre più antirivoluzionaria, la classe intellettuale si ritirava nelle posizioni più tradizionali: liberalismo e cattolicismo. D'altra parte le esigenze della rivoluzione sul piano politico, non secondate dal movimento culturale, erano costrette a far leva sulle ideologie del nazionalsocialismo, che procedeva rapidamente nel suo cammino. Questa necessità di fatto accentuava a sua volta l'ostilità della cultura e alimentava un movimento di reazione che si estendeva fino alle classi popolari. Nulla di strano quindi, se, scoppiata la guerra, pressoché tutta l'Italia si è trovata anglofila e francofila, antitedesca e antirivoluzionaria.

[Mancano nove righe illeggibili per deterioramento nell'originale].

La colpa del disorientamento ricade nella massima parte sul mondo intellettuale; e ben si spiega il disprezzo con cui la cultura è guardata da chi ha fede rivoluzionaria. Ma è pur vero che, nel campo della cultura, esistono degli elementi preparati ideologicamente e scientificamente ai compiti della Rivoluzione e che su di essi si potrebbe far leva per rinnovare dall'interno, un mondo da cui non si può prescindere. Chi vive nella scuola sa che escono ogni anno da essa tanti giovani che attendono invano di essere orientati per lavorare, con serietà scientifica, a un'opera di ricostruzione. Accompagnando con un atteggiamento di diffidenza tutto il mondo della cultura e non discriminando in esso il vecchio e il nuovo, si corre il rischio di abbandonare i giovani alla forza della tradizione e di alimentare in essi lo stesso spirito di ostilità che anima i vecchi.
Questa premessa mi è sembrata necessaria per chiarire quello che a me sembra il compito di oggi. Spiritualmente impreparati e disorientati siamo forse alla vigilia della pace, con la coscienza che vincere la pace è cosa affatto diversa dal vincere la guerra. Ora credo che si possa senz'altro affermare che vincerà la pace chi saprà meglio fare la Rivoluzione, chi saprà offrire al mondo, in termini precisi e concreti, ideologicamente e tecnicamente, il programma rivoluzionario più comprensivo, che, saldando il processo tra il vecchio e il nuovo, riesce a guadagnare la fiducia dei vincitori e dei vinti. E per far questo occorre uscire subito dal disorientamento, mettersi al lavoro e presentarci accanto alla Germania, anzi prima di tutto alla Germania, con idee chiare e di ampio respiro.
Ma, intanto, per quel che mi pare di vedere attraverso qualche sintomo, sia pure vago ed impreciso, e qualche commento ai piani di ricostruzione circolanti nella stampa tedesca, si va delineando una tendenza a chiudere il problema della pace nel problema particolaristico della pace italiana e a giuocare senza chiara consapevolezza su un concetto equivoco di autarchia. Ho timore, insomma, che si ripeta sul piano della pace quello stesso errore che, senza il Tuo energico intuito si poteva compiere sul piano della guerra: lasciare sola la Germania e lasciarci sfuggire l'iniziativa rivoluzionaria.
La Germania ha due modi di fare la pace e di realizzare la propria vittoria: uno conservatore e plutocratico, l'altro rivoluzionario e corporativo. Nel primo caso resterà la Germania imperialista di fronte a un'Europa più o meno vassalla, in una nuova sorta di equilibrio instabile e in un'irriducibile contrapposizione di ideologie e di programmi. Nel secondo, assolverà una funzione di carattere internazionale - europea e più che europea - realizzando un ordine nuovo, in una comunanza di principi ideali e di interessi, per cui il benessere della Germania sarà condizionato dal benessere degli altri Paesi.Quale dei due modi prevarrà? Il pericolo della prima soluzione è evidente:
il vincitore arricchito delle spoglie del nemico tende a diventare conservatore e a mantenere la superiorità raggiunta nei confronti del vinto. Ma non è detto che questo criterio debba trionfare ed anzi ci sono serie ragioni per pensare il contrario. Una prima è data dalla spinta rivoluzionaria, collettivistica, che ha condotto la Germania alla vittoria, sul fondamento di una struttura sociale e di una tecnica che non possono venire arrestate nel loro processo organico. Una seconda ragione può essere data - e in modo decisivo - dall'azione del resto dell'Europa, ma soprattutto dell'alleato vincitore, dell'Italia. Se, infatti, l'Italia solleciterà dalla Germania la seconda soluzione e agirà sul resto dell'Europa nel senso di questa più intima collaborazione, contribuirà ad attenuare e poi ad eliminare le tendenze tedesche conservatrici e a raggiungere la fine della politica di equilibrio.
Ora, purtroppo, il criterio che comincia a prevalere in Italia è in completa antitesi con questa seconda soluzione. Sulla base di una iniziale diffidenza verso la Germania e del terrore del suo predominio, si auspica una vittoria dell'Asse nel senso della costituzione di due sfere separate d'influenza, di due unità economiche autarchiche, di due autonomie cioè, che consentano all'Italia un futuro giuoco politico eventualmente antitedesco. Ma non si considera, così facendo, che circoscrivere la sfera d'influenza tedesca in una nuova forma di equilibrio europeo significa potenziarne il razzismo nel suo significato più materialistico e il suo imperialismo nel senso della maggiore prepotenza. Una Germania circoscritta non potrà non volere subordinare a sé gli interessi dei paesi confinanti, non volere giungere, prima o poi, al Mediterraneo attraverso Trieste, non avviarsi a una influenza sempre maggiore in questo mare, non far dilagare, in altri termini, il suo dominio a danno delle altrui sfere d'influenza. E questa necessità intrinseca al suo imperialismo - comune a ogni imperialismo, ma tanto più forte quanto più legato all'orgoglio razzista - sarà aggravata dalla piena consapevolezza che la Germania avrà della nostra diffidenza e del nostro programma. La diffidenza si paga con la diffidenza, e la diffidenza sui piano politico ed economico si traduce nel desiderio di diminuire e di boicottare. La nostra azione sarà ostacolata in tutti i sensi, la nostra industria menomata, i nostri mercati circoscritti. Date le diverse posizioni di partenza, la concorrenza sarà tutta a nostro danno e il rapporto di dipendenza non potrà essere evitato. L'ideale dell'autarchia troverà cioè in se stesso la propria negazione e ciò che si vuole evitare sarà banalmente sollecitato. Dal punto di vista sociale, poi, le reciproche autarchie non potranno non dare luogo alla costituzione di due plutocrazie e particolarmente di una plutocrazia italiana al servigio di quella più forte. Il fine rivoluzionario, frustrato sul terreno internazionale, sarà a maggior ragione negato nella politica interna.
Alla politica autarchica si contrappone il pericolo della economia complementare, quale risulterebbe da un piano tedesco già delineato. La Germania sarebbe circondata da paesi agricoli e il suo dominio si eserciterebbe non nella contrapposizione dall'esterno agli altri paesi, bensì nell'organizzazione dall'interno della nuova Europa. Ma è qui, su questo piano appunto, che l'Italia e poi il resto di Europa possono operare correggendo il concetto di complementarità a beneficio proprio e degli stessi tedeschi. Accettato il concetto di collaborazione, la forma e i risultati di essa dipendono dai collaboratori. E dipenderà proprio da noi se sapremo convincere i tedeschi che nell'interesse nostro e loro il criterio della complementarità implica lo sviluppo industriale massimo di tutta l'Europa, e se, in conseguenza, sapremo indurli a favorire il potenziamento delle nostre industrie.
Riassumendo, credo che i principi fondamentali della nostra azione politica dovrebbero essere i seguenti:I. Lealtà massima con i Tedeschi. Solo sul piano della lealtà si può costruire un programma rivoluzionario e farne propaganda internazionale. La politica di equilibrio implica la contrapposizione tra ciò che si pensa e ciò che si dice, quindi la diplomazia, quindi la classe dirigente che ha il segreto e che si contrappone alla massa, quindi il malcostume, il borghesismo, la plutocrazia.
II. Ingrandimento del campo di azione dei vincitori in un'opera di carattere internazionale, che modifichi il concetto di razza e di autarchia, trasportandolo dal terreno materialistico a quello spiritualistico.III. Preparazione di un piano rivoluzionario corporativo che, per il principio ideale e per le sue determinazioni tecniche, risponda alle più profonde esigenze spirituali di oggi e possa guadagnare la fiducia dei vincitori e dei vinti.
Ma, se questi sono i principi che debbono guidare la nostra azione, è chiaro che occorre mettersi subito al lavoro e sollecitare fin d'ora un movimento culturale che abbia la possibilità di pesare ideologicamente e politicamente. I tedeschi si preparano già da lungo tempo e noi siamo assenti: diffidiamo inutilmente di loro e ci mettiamo senza discutere nelle loro mani.
Tutto questo ho voluto dirTi perché Tu non creda che gli esponenti della cultura italiana siano senza eccezione sull'Aventino. Penso anzi che la riserva migliore sulla quale possa fare assegnamento l'Italia sia quella della cultura e che la carta principale per riprendere l'iniziativa della Rivoluzione nel suo gioco politico internazionale sia quella della ideologia. Penso ancora che, iniziato il movimento, molti giovani studiosi si rivelerebbero improvvisamente e si porrebbero con fede e con insostituibile capacità al lavoro di costruzione scientifica e politica. Ma la condizione imprescindibile per raggiungere questo risultato è che il movimento scientifico possa svolgersi con serenità e continuità, in un'atmosfera che, pure essendo politica, sia sottratta alle vicende troppo contingenti dell'azione politica più immediata. Preparare un piano corporativo di carattere internazionale significa approfondire la critica dell'equilibrio politico ed economico (liberalismo), il significato positivo e negativo dell'autarchia (organismo economico e protezionismo), il problema della moneta aurea e della sua sostituzione (economia del lavoro e disoccupazione), il problema dell'organismo economico internazionale (corporazione generale o territoriale), il criterio dell'economia complementare (nel significato tedesco e in quello che potrebbe essere il significato italiano), il rapporto tra il sistema europeo e il sistema mondiale (rivoluzione parziale o totale) il rapporto tra Fascismo e Bolscevismo (gerarchia e democrazia), il problema delle materie prime e delle eccedenze demografiche (distribuzione dei territori o circolazione delle masse), il rapporto tra economia rurale ed economia industriale (paesi poveri e paesi ricchi), le riforme istituzionali interne e internazionali (parlamentarismo, società e gerarchia delle nazioni), il significato del razzismo e delle sue conseguenze politiche (germanesimo, ebraismo, popoli latini, razze gialle), ecc. Basta accennare a questi problemi per intuire subito la complessità e la reciproca interferenza. I Tedeschi li stanno affrontando metodicamente e con una continuità di principi e di ricerche che dura ormai da parecchi anni. In Italia non solo si è fatto pochissimo, ma in generale non si sospetta, anche da chi siede sulle cattedre, che tali problemi esistono e possano essere oggetto di studio. Quelli che potrebbero fare, e che si trovano dinanzi alla incomprensione e alla ostilità misoneistica della scienza accademica, avrebbero bisogno di essere posti nelle condizioni spirituali e materiali di lavorare e discutere su un piano di superiore dignità.
docenti delle Università italiane considererebbero come loro più ambito privilegio cimentarsi, su Tue direttive, ad una ricognizione generale della dottrina fascista, raggrupparla in settori e prospettare, da un punto di vista rigorosamente teorico, i possibili orientamenti. I temi sarebbero preventivamente sottoposti al Tuo giudizio e il lavoro non dovrebbe, penso, assumere la forma esteriore di un convegno. Sarebbe compiuto a celerissime tappe, in composto silenzio, nel concluso ambito accademico, e Ti sarebbero poi presentate le conclusioni, che potrebbero rimanere riservate fino a che Tu lo giudichi opportuno; od anche essere esaminate e discusse da altri settori del Regime.
La giovane generazione dei docenti delle nostre Università, educata al costume fascista nel clima fascista, si sente anche essa una milizia ai Tuoi ordini e, come tale, chiede di servirli. Se l'esperimento, come io ritengo, sarà fecondo, potrai, successivamente, esaminare l'opportunità di porre i migliori elementi a contatto con i camerati docenti tedeschi per unificare, in feconda e leale collaborazione, taluni principi teorici che dallo studio saranno affiorati e che Tu avrai ritenuti conformi allo spirito della dottrina fascista.

Giuseppe Bottai

L'arresto del Duce - 25 Luglio 1943

Il Gran Consiglio della notte tra il 24 e il 25 luglio del 1943 segna la caduta del Regime fascista per la mano stessa del suo organo superiore. Il Duce avrebbe potuto facilmente sciogliere il Gran Consiglio e annullarne la delibera. Non lo fece. Con un atto di encomiabile correttezza, quale suo uso, si recò dal Re per presentare le dimissioni dal Capo del Governo. A quel punto l'inaspettabile svolta...

Giovanni Frignani, Raffaele Aversa e Paolo Vigneri: ecco, per la storia, i nomi dei tre ufficiali dell’Arma che affrontarono la tremenda responsabilità di arrestare l’uomo a cui per oltre vent’anni era legato il destino del popolo italiano.E con i tre suddetti ufficiali era la schiera dei loro dipendenti: sottufficiali e carabinieri che, fedeli pedine del rischiosissimo gioco, diedero tutta la loro modesta ma efficace cooperazione.

I capitani Aversa e Vigneri, rispettivamente comandanti delle compagnie della Capitale: la Tribunale l’Aversa e l’Interna il Vigneri, vengono telefonicamente convocati, verso le ore 14 del 25 luglio, nell’ufficio del tenente colonnello Frignani, comandante del gruppo da cui dipendevano.

Malgrado l’odore di crisi acuta che tutti fiutavano nell’aria dopo quanto era trapelato dalla drammatica seduta del Gran Consiglio del fascismo della notte innanzi, essi si affrettarono verso il luogo del convegno senza nulla presagire di quello che si voleva da loro. Già le chiamate del genere si facevano sempre piú frequenti in quel periodo cosí gravido ed inquietante sia per il rapido progredire dell’invasione del territorio nazionale da parte delle armate alleate sbarcate in Sicilia e sia per il bombardamento aereo di appena pochi giorni prima, del quartiere S. Lorenzo che tanto aveva terrorizzato la popolazione della Capitale. Lo confermano i rapporti agli ufficiali ed al personale in genere, che erano diventati sempre piú frequenti, per non dire quasi quotidiani.

Dal Comando Generale frattanto era stato diramato l’ordine di tenere consegnati, dalle ore 16 in poi, tutti i militari dell’Arma, in attesa d’una autorevolissima visita nelle rispettive caserme dell’Urbe.
Alla sede del Comando di Gruppo in viale Liegi, dove giunsero separatamente sia il tenente colonnello Frignani che i due capitani, si trovavano già il comandante generale dell’Arma Angelo Cerica ed il commissario di P.S. Carmelo Mazzano - sottotenente di complemento dei Carabinieri - direttore dell’autodrappello del Ministero dell’Interno.

Il generale Cerica, calmo pur nel pallore del viso che tradiva la sua intima commozione, fissa negli occhi i suoi dipendenti e dice all’incirca:

«Vi affido un compito di estrema gravità per il quale so di non fare invano appello al vostro alto senso del dovere. Oggi, fra qualche ora anzi, voi dovete arrestare Mussolini che, messo questa notte in minoranza nella seduta del Gran Consiglio del fascismo, si recherà dal sovrano e sarà sostituito nelle sue funzioni di capo del governo...»

Nessuna consegna forse apparve piú ardua di questa ai bravi ufficiali che tuttavia senza batter ciglio rispondono con due parole: «Sta bene...»

Si appartano poi in un’altra stanza dell’ufficio del Gruppo ed il tenente colonnello Frignani espone, illustra e commenta nei piú minuti particolari ai due capitani, le modalità esecutive dell’ordine ricevuto.

Poco dopo giungono in viale Liegi il questore Morazzini, addetto alla Casa Reale, in autoambulanza con a bordo, oltre al conducente, tre agenti di P.S. in abito civile, armati di mitra ed un automezzo destinato al trasporto dei militari dell’Arma.

In attinenza alle precise istruzioni concretate, i capitani Aversa e Vigneri con i due automezzi si portano al Gruppo squadroni nella vicina caserma Pastrengo e fanno approntare un plotone di 50 carabinieri che asseritamente debbono rimanere agli ordini dell’Aversa per ricercare, affrontare e catturare nuclei di paracadutisti alleati lanciati nei dintorni di Roma.
Il pretesto, giacché di pretesto si tratta, al fine di evitare ogni possibile indiscrezione che avrebbe potuto nuocere alla massima segretezza delle missioni predisposte, è facilmente accreditato dalle circostanze del recente bombardamento aereo della capitale. Nessuno pensa minimamente a vicende diverse. Soltanto si chiedono maggiori particolari d’impiego e questi vengono dati con pronta disinvoltura lavorando una volta tanto d’impostazione e di fantasia.

Il capitano Vigneri, al quale il superiore ha commesso in termini drastici la consegna di «catturarlo vivo o morto» sceglie, personalmente, tra i militari del Gruppo squadroni tre sottufficiali di particolare prestanza fisica e di pronta intelligenza che dovranno prestargli man forte, in caso di necessità, prima di ricorrere «ultima ratio» alle armi; precisamente i vicebrigadieri: Bertuzzi Domenico; Gianfriglia Romeo e Zenon Sante.I militari salgono sull’autocarro che viene chiuso accuratamente col tendone, mentre i due capitani, i tre vicebrigadieri e i tre agenti di P. S. prendono posto nell’autoambulanza che viene anch’essa chiusa ed ha gli sportelli coi vetri smerigliati. I due automezzi, senza che nessuno, ad eccezione dei due capitani, conoscesse la destinazione, si dirigevano alla volta di Villa Savoia preceduti dalla vettura del questore Morazzini, che, data la minuta conoscenza dei luoghi, si era assunto il compito di far entrare il convoglio nell’interno della residenza reale. Dopo una brevissima sosta al cancello di via Salaria vengono ancora percorsi un centinaio di metri e gli automezzi si arrestano. Il questore Morazzini, come d’intesa, picchia ai vetri dell’ambulanza per avvertire i due capitani che si è giunti nel luogo stabilito. Essi discendono ed altrettanto fanno i loro dipendenti che si raggruppano silenziosi, ma visibilmente commossi di trovarsi nel parco di una Villa.

Il questore Morazzini dà alcune sommarie indicazioni sulla topografia della località, che bastano ad orientare i due ufficiali in rapporto ai loro compiti. Il punto dove ora essi si trovano è nel lato settentrionale della villa reale, cioè nella parte opposta all’ingresso principale, dove fra breve dovrà entrare Mussolini.

È qui che si deve aspettare il momento di agire. Il questore stringe calorosamente la mano agli ufficiali con atteggiamento di favorevole auspicio e si allontana da quella parte che costituirà la scena del dramma imminente.

Lo spettacolo inusitato apparso cosí all’improvviso, non sfugge a chi sta nell’interno della villa. Qualche viso s’intravede dietro le finestre del primo piano, protette da fitte reticelle metalliche, ma per un solo attimo; poi l’ombra scompare. Un famiglio sbucato tra gli alberi del parco si arresta all’improvviso e sta quasi per tornare indietro, incerto e fors’anche un po’ smarrito.

Sotto il sole infuocato e nel silenzio inusato del meriggio gli ufficiali riuniscono il personale in un piccolo cerchio ed il capitano Vigneri rivela loro, a bassa voce, e finalmente, la grande consegna. S’impartiscono rapidamente le istruzioni di dettaglio. Poi torna il silenzio, rotto solo da un sordo acciottolio proveniente dalle non lontane cucine reali. I carabinieri, che in un primo tempo nella caserma Pastrengo avevano accolto con qualche perplessità l’annuncio fittizio del rastrellamento dei paracadutisti lanciati dagli aerei nemici, ora intuiscono di essere i modesti protagonisti d’un grande evento, bisbigliano tra loro qualche commento, ma si mostrano seriamente decisi, pronti e risoluti.

L’attesa è tuttavia snervante. I due capitani, compagni d’accademia e vecchi amici, si scambiano qualche impressione e, reciprocamente, si ripetono i dettagli dell’impresa imminente. Giunge finalmente - com’era atteso - il ten. colonnello Frignani, che veste l’abito civile. Avverte i due ufficiali che Mussolini, il quale aveva avuto in precedenza fissata l’udienza dal Sovrano, arriverà in ritardo sull’ora prevista.

Entra poi nella villa dall’ingresso secondario - a levante - per prendere gli ultimi accordi con i funzionari della Real Casa e, dopo qualche minuto, ritorna presso i suoi uomini.Si dimostra però turbato e contrariato, perché vi sarebbero delle riluttanze per l’arresto del Duce sulla soglia della villa reale. Tuttavia si ricompone subito, deciso e risoluto, esclama: «noi in ogni caso lo arrestiamo ugualmente».

Egli sente indubbiamente la passione dell’ora che volge: egli intuisce la necessità di non dare tempo al capo del governo spodestato di riaversi dal duro colpo e di scatenare o di tentare di scatenare un movimento di reazione, le cui conseguenze potrebbero riuscire fatali per il nostro Paese. Ma, da vero soldato, si rende conto che è indispensabile saper frenare i generosi impulsi del cuore ed agire con tempestiva ponderatezza. Rientra di nuovo nella villa e ne esce poco dopo con la notizia che Mussolini si trova ancora a colloquio col sovrano e che l’arresto si farà. Ma non c’è tempo da perdere ormai. Il questore Marazzini intanto, col pretesto di una urgente chiamata telefonica, ha attirato in un punto lontano dalla villa l’autista del Duce, che cosí è stato immobilizzato.

I cinquanta carabinieri vengono lasciati sul lato settentrionale dell’edificio, pronti ad accorrere al primo cenno, mentre i due capitani, i tre vicebrigadieri ed i tre agenti di P. S. armati di mitra si portano sul lato orientale. Si fa avanzare l’autoambulanza fino a pochi metri dall’ingresso dal quale uscirà Mussolini, ma in modo da non essere notata.Proprio nell’angolo sta fermo un famiglio fidato con la consegna di allontanarsi allorché il capo del governo comparirà in cima alle scale. È questo il segnale convenuto per agire. Sullo stesso lato, a ridosso della siepe, è in sosta, priva dell’autista, la macchina di Mussolini. A pochi metri di distanza il capitano Vigneri dispone i tre agenti di P. S. con le armi pronte e con l’ordine d’intervenire soltanto in caso di necessità e sempre al primo cenno. Poi, insieme al collega Aversa, si colloca di fronte, presso il muro della villa, con a tergo i tre sottufficiali.Una ventina di metri piú indietro, sostano il ten. colonnello Frignani ed il questore Morazzini, i quali si avvicineranno solo quando Mussolini sarà salito sull’autoambulanza.

Ad un certo momento il famiglio si allontana. È l’ora. Il piccolo gruppo, formato dai due capitani e dai tre vicebrigadieri, avanza e - quasi contemporaneamente - si scorge il duce - mentre discende gli ultimi gradini della scalinata insieme al suo segretario particolare De Cesare. Vestono entrambi l’abito scuro: Mussolini con un completo blu ed un cappello floscio. Egli deve aver notato all’ultimo istante l’insolito apparato, tanto che trasalisce visibilmente.Il capitano Vigneri gli va incontro e, stando sull’attenti, dice: «Duce in nome di S.M. il Re vi preghiamo di seguirci per sottrarvi ad eventuali violenze da parte della folla».Mussolini allarga le mani nervosamente serrate su una piccola agenda e con un tono stanco, quasi implorante, risponde: «Ma non ce n’è bisogno!»

Il suo aspetto è quello d’un uomo moralmente finito, quasi distrutto: ha il colorito del malato e sembra persino piú piccolo di statura.

«Duce, - riprende il capitano Vigneri, - io ho un ordine da eseguire». «Allora seguitemi», risponde Mussolini e fa per dirigersi verso la sua macchina. Ma l’ufficiale gli si para dinnanzi: «No, Duce, - gli dice, - bisogna venire con la mia macchina».

L’ex capo del governo non ribatte altro e si avvia verso l’autoambulanza, col capitano Vigneri alla sua sinistra; segue De Cesare, con a fianco il capitano Aversa.Dinnanzi all’autoambulanza Mussolini ha un attimo di esitazione, ma Vigneri lo prende per il gomito sinistro e lo aiuta a salire. Siede sul sedile di destra.Sono esattamente le ore 17.20.

Dopo, sale De Cesare e si mette a sedere di fronte al suo capo. Quando anche i sottufficiali e gli agenti si accingono a montare, il Duce protesta: «Anche gli agenti?! No!!»

Vigneri allarga le braccia come per fargli capire che non c’è nulla da fare e, rivolgendosi deciso ai suoi uomini, ordina: «Su ragazzi, presto!!»

Anche i due capitani salgono. Nell’autoambulanza ora si è in dieci e si sta stretti. Il questore Morazzini si avvicina e, prima di chiudere la porta dall’esterno, avverte che si uscirà da un ingresso secondario e che un famiglio accompagnerà l’automezzo sino all’uscita.

La macchina si muove, mentre l’autocarro con il plotone dei cinquanta carabinieri rimane fermo. Ormai non c’è piú bisogno di loro. Anche la missione del ten. colonnello Frignani e dei capitani Vigneri e Aversa è finita.

25 Luglio 1943 - La caduta del Regime

L'ultima e burrascosa seduta del Gran Consiglio del Fascismo



Tra le ore 17 del 24 e le 3 del mattino del 25 luglio 1943, in una tempestosa riunione durata dieci ore, il Gran consiglio del fascismo (che non si riuniva dal 7 dicembre 1939, quando era stata approvata la "non belligeranza" dell'Italia), mise in minoranza Mussolini. Oltre al duce (che presiedeva il Consiglio) erano presenti ventisette membri.

L'ordine del giorno Grandi (redatto dallo stesso Grandi, da Ciano e da Bottai), che prevedeva l'allontanamento del Duce del fascismo, prevalse con 19 si contro 7 no e un'astensione.

Prima delle votazioni, parlò Mussolini.

"Quest'ordine del giorno - disse - pone problemi molto gravi di dignità personale. Se il re accetta la restituzione della delega dei poteri militari, questo significa che io debbo essere decapitato. E' meglio parlarci chiaro. Io ho ormai sessant'anni e so cosa vogliono dire queste cose. Se poi domani il re a cui portassi questo vostro ordine del giorno dovesse rinnovare la sua fiducia in me, quale sarebbe la posizione di voi signori di fronte al re, di fronte al paese, di fronte al partito, di fronte a me personalmente?"

Nonostante, le inquietanti domande di Mussolini, il Consiglio gli votò contro. Alle 18 dello stesso 25 luglio il re Vittorio Emanuele III farà arrestare Mussolini (sostituito con il generale Badoglio) e l'11 gennaio 1944 furono fucilati a Verona i "traditori del Regime", cioè i firmatari non contumaci dell'ordine del giorno Grandi. Facciamo ora seguire i tre ordini del giorno che, in quella drammatica notte, furono presentati, discussi e votati: quello di Grandi. quello di Farinacci (che ebbe il voto del solo proponente) e quello di Scorza (concordato preventivamente con Mussolini).

1. Ordine del giorno Grandi - "Il Gran Consiglio, riunendosi in questi giorni di supremo cimento, volge innanzitutto il suo pensiero agli eroici combattenti di ogni armata che, a fianco a fianco con la fiera gente di Sicilia, in cui più alta risplende l'univoca fede del popolo italiano, rinnovano le nobili tradizioni di strenuo valore e di indomito spirito di sacrificio delle nostre gloriose forze armate.

Esaminata la situazione interna ed internazionale e la condotta politica e militare della guerra, proclama: il dovere per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l'unità, l'indipendenza, la libertà della patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l'avenire del popolo italiano; afferma: la necessità dell'unione morale e materiale di tutti gli Italiani in quest'ora grave e decisiva per i destini della patria;

dichiara: che a tale scopo è necessario l'immediato ripristino di tutte le funioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al governo, al Parlamento, alle corporazioni, i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali;

invita: il capo del governo a pregare la Maestà del Re, verso la quale si rivolge fedelmente e fiducioso il cuore di tutta la nazione, affinchè egli voglia, per l'onore e la salvezza della patria, assumere con l'effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell'aria, secondo l'articolo 5 dello Statuto del Regno, quelle supreme iniziative di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono e che sono sempre state, in tutta la nostra storia nazionale, il retaggio glorioso della nostra augusta dinastia di Savoia."

2. Ordine del giorno Farinacci - "Il Gran Consiglio del fascismo, veduta la situazione interna ed internazionale e la condotta politico-militare della guerra sui fronti dell'Asse, rivolge il suo fiero e riconoscente saluto alle eroiche forze armate italiane e a quelle alleate, unite nello sforzo e nel sacrificio per la difesa della civiltà europea, alle genti della Sicilia invasa, oggi più che mai vicina al cuore delle altre genti, alle masse lavoratrici dell'industria e dell'agricoltura che potenziano col lavoro la patria in armi, alle camicie nere ed ai fascisti di tutta Italia che si serrano nei ranghi con la immutata fedeltà al regime;

afferma: il dovere sacro per tutti gli Italiani di difendere fino all'estremo il sacro suolo della patria, rimanendo fermi nell'osservanza delle alleanze concluse; dichiara che a tale scopo è necessario e urgente il ripristino generale di tutte le funzioni statali, attribuendo al Re, al Gran Consiglio, al governo, al Parlamento, al partito, alle corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dal nostro statuto e dalla nostra legislazione;

invita il capo del governo a chiedere alla Maestà del Re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la nazione, perchè voglia assumere l'effettivo comando di tutte le forze armate e dimostrare così al mondo intero che tutto il popolo combatte serrato ai suoi ordini, per la salvezza e la dignità d'Italia".

3. Ordine del giorno Scorza - "Il Gran consiglio del fascismo, convocato mentre il nemico - imbaldanzito dai successi e reso tracotante dalle sue ricchezze - calpesta la terra di Sicilia e dal cielo e dal mare minaccia la penisola; afferma solennemente la vitale e incontroversibile necessità della resistenza a ogni costo. Certo che tutti gli istituti ed i cittadini - nella piena e consapevole responsabilità dell'ora - sapranno compiere il loro dovere sino all'estremo sacrificio, chiama a raccolta le forze spirituali e materiali della nazione per la difesa dell'unità, dell'indipendenza e della libertà della patria.

Il Gran consiglio del fascismo, in piedi:

saluta le città straziate dalla furia nemica e le loro popolazioni che in Roma - madre del cattolicesimo, culla e depositaria delle più alte civiltà - trovano la espressione più nobile della loro fermezza e della loro disciplina; rivolge il pensiero con la fiera commozione alla memoria dei caduti e alle loro famiglie che trasformano il dolore in volontà di resistenza e di combattimento;

saluta nella Maestà del Re e nella dinastia sabauda il simbolo e la forza della continuità della nazione e l'espressione della virtù di tutte le forze armate che - insieme con i valorosi soldati germanici - difendono la patria in terra, in mare, in cielo;

si unisce reverente al cordoglio del pontefice per la distruzione di tanti insigni monumenti dedicati da secoli al culto della religione e dell'arte.

Il Gran consiglio del fascismo è convinto che la nuova situazione creata dagli eventi bellici debba essere affrontata con metodi e mezzi nuovi. Proclama pertanto urgente la necessità di attuare quelle riforme ed innovazioni nel governo, nel Comando supremo, nella vita interna del paese, le quali - nella piena funzionalità degli organi costituzionali del regime - possano rendere vittorioso lo sforzo unitario del popolo italiano".