mercoledì 28 gennaio 2009

LE ALTRE DONNE IMPORTANTI NELLA VITA DI HITLER

Per iniziare vanno smentite alcune dicerie riguardo alla sessualità di Hitler che parlano di un Führer non interessato alle donne (alcune si spingono a dire che fosse impotente): tutto ciò è falso.



Il Führer amava la compagnia femminile; era deliziato dalle donne, in particolar modo da quelle giovani di aspetto sano e grazioso, e nella sua vita fu anche un uomo pazzamente innamorato, anche se solo per un breve periodo. Ma andiamo in ordine cronologico.


La prima infatuazione di Hitler fu quella per una ragazzina di nome Stefania, alla quale dedicò dei versi senza mai consegnarglieli. Poi ebbe altre ragazze nei suoi anni di vagabondaggio viennese e in quelli da apolide tra Austria e Germania dopo la Grande Guerra, tra cui tali Jenny Haug e Erna Hanfstaengl.


Una menzione merita il complesso rapporto di Hitler con Winifred Wagner, nipote del grande compositore Richard Wagner, che rimase amica del Führer e devota hitleriana per tutta la sua lunga vita.


Geli e Eva, le due donne più importanti della vita di Hitler, ma non le uniche.La prima donna davvero importante per Hitler fu sua madre Klara, che il giovane Adolf amò moltissimo e per la cui morte soffrì terribilmente.




Tutti o quasi i gerarchi nazisti erano sposati e avevano figli; la 'first lady' del Terzo Reich era, nominalmente, la moglie di Goering, Emmy.





Ma né lei, né nessuna altra moglie dei gerarchi aveva il benché minimo peso politico nel Reich, visto che l’ ideologia del regime attribuiva alle donne il solo compito di dare figli allo stato nazionalsocialista.




Solo Magda Goebbels, la moglie del ministro della propaganda Josef Goebbels, sfuggiva a questa regola.


Magda era una donna intelligente, fanatica hitleriana quasi quanto il marito, forte e spietata. Era l' unica donna che avesse accesso ai luoghi di potere e l' unica ad avere un qualche ascendente sul Führer.


Hitler si adoperò più di una volta affinché lei e il suo fedifrago marito, che sfruttava la sua posizione per rifarsi di anni di insuccessi con le donne frutto del suo fisico minuto e zoppo, rimanessero insieme.


Da segnalare che i pettegolezzi dell’ epoca collocavano tra le amanti di Josef Goebbels anche una donna molto importante per il Terzo Reich: Leni Riefenstahl, la regista di molti film tra i quali ‘Olympia’, dedicato alle Olimpiadi di Berlino del 1936.


Il Führer si interessava eccezionalmente di questi rapporti privati perché riteneva preziosi entrambi i devotissimi coniugi Goebbels.



Magda è passata alla storia perché, il giorno dopo il suicidio di Hitler, prima di uccidersi avvelenò i suoi sei figli, i cui nomi iniziavano tutti con H (omaggio evidente a Hitler), con l’ aiuto del marito.

Lei e Goebbels, scrissero, non volevano vivere né far vivere i loro figli in una Germania senza il Führer.

Così, solo ventiquattr’ ore dopo la morte di Hitler si spense anche l’ unica donna che si sia mai potuta permettere di parlare con lui di politica.






lunedì 26 gennaio 2009

LA COMPAGNA DI VITA E DI MORTE DEL FUHRER: EVA BRAUN

Dopo la morte di Geli Hitler non amò mai più una donna. Ne frequentò molte altre, tutte fatte come piacevano a lui: giovani, slanciate e attraenti, ma nessuna sostituì mai il suo amore perduto. Negli anni ’30 ebbe relazioni con molte giovani donne, ivi comprese diverse sue segretarie e alcune consorti dei gerarchi del Reich; voci dell’ epoca dicono anche che il Führer diede un figlio ad una di esse; visse anche delle normali gelosie per queste sue amanti. Tra queste numerose ragazze, però, ve ne fu solo una che negli anni assunse un ruolo importante nella vita privata del Führer: si chiamava Eva Braun.

Eva era una ragazza molto più giovane di Hitler, proveniente da una famiglia piccolo borghese. Era un' assistente del laboratorio fotografico di un amico intimo del Führer, Heinrich Hoffmann. Si innamorò subito e completamente di Hitler. Suo padre, nazista non fanatico, non era contento della relazione che la sua giovane figlia iniziò con il ben più anziano Hitler, ma, ovviamente, il suo parere aveva un peso trascurabile.




La Braun fu durante tutti i dodici anni di regime nazista l' amante di Hitler; Eva, però, era un' amante segreta, tenuta nascosta dal mondo, segregata da tutto e da tutti; nel 1945, dopo dodici anni da amante del Führer, solo pochi eletti sapevano della sua esistenza.

Hitler, diventato un' icona per tutte le donne del Reich, teneva a dare un' immagine di sé quale uomo libero che pensa solo all' enorme peso di portare sulle spalle il destino del suo popolo. Eva moriva di gelosia e per ben due volte tentò il suicidio.

Hitler, allora, ordinò di portarla, sempre segretamente, al Berghof e di tenerla strettamente sotto controllo. Anche lì il suo peso sulle decisioni, anche su quelle quotidiane, era nullo, nonostante fosse l' amante di Hitler. Era Borrman il vero boss di Obersalzberg e Eva doveva sottostare in silenzio.



Ma, in fondo, non le importava: tutte le sue giornate, fatte di letture scadenti, film noiosi, sport, cura del corpo, ballo (disprezzato da Hitler) e aria aperta, non erano altro che una continua attesa del ritorno dell' uomo che aveva un ascendente totale su di lei e su gran parte dei tedeschi.

Era così poco considerata che non potè nemmeno evitare l' esecuzione del marito di sua sorella. Hitler la vedeva di fatto solo come una giovane attraente, e per nulla intelligente, su cui sfogare i suoi istinti sessuali; va però precisato che negli anni finì per affezionarvisi.



Eva, in effetti, era una donna ordinaria e, in molti sensi, banale; l' architetto del Reich Speer ne parlò così allo storico Trevor-Roper "Eva Braun sarà sempre una delusione per tutti gli storici", al che lo storico rispose “Come pure per coloro che leggono la storia”.

Personalmente non sono d' accordo con questa valutazione: Eva era sì una persona estremamente semplice che non nascondeva alcun segreto, se non quello della sua stessa esistenza. Lei, la donna che rimase al fianco di Hitler fino alla fine e che coronò il suo sogno di sposarlo poche ore prima del loro suicidio nel bunker della Cancelleria di Berlino, la donna che sull' atto di matrimonio firmò Eva, scrisse la B di Braun, la cancellò e scrisse orgogliosamente Hitler, Eva Hitler; lei, l' amante segreta, triste e solitaria del Führer, era una donna dalla personalità anonima.


Ma Eva Braun rappresenta un esempio unico dell' attrazione magnetica che Hitler esercitava sugli uomini e sulle donne del Terzo Reich, e questo la rende molto interessante per chi studia la storia della Germania nazista.



Alcune immagini di Adolf Hitler e sua moglie Eva Braun al Berghof
(a colori)




Eva Braun. . . Una vita







Eva Braun Viaggio in Italia (1941)



foto di Eva Braun





Adolf Hitler,Albert Speer e Eva Braun




Ritratto di Eva: autore Adolf Hitler

sabato 24 gennaio 2009

L’ AMORE DELLA VITA DI HITLER: GELI RAUBAL

Nel 1928 Hitler trovò il primo e unico grande amore della sua vita.In quell' anno il futuro Führer nazista prese in affitto una villetta a Obersalzberg, sul confine austro-tedesco. Quella villetta, la villa Wachenfeld, sarebbe diventata uno dei luoghi simbolo del potere del Terzo Reich: una volta ristrutturata prese il nome di Berghof.

Hitler convinse la sua sorellastra, Angela Raubal, ad accettare il ruolo di governante della villetta. Angela portò con sé le sue due figlie, Angelika e Friedl.Angelika Raubal, detta Geli, era una ragazza ventenne carina e avvenente.

Hitler s’ innamorò subito di lei e fu per il futuro Führer un amore autentico. I due per qualche tempo furono inseparabili; Geli è stata la vera donna di Hitler, l' unica che abbia mai portato con sé sia nelle gite che nelle riunioni di partito.



Quando Hitler si trasferì a Monaco per motivi politici volle Geli con sé ad ogni costo. In quei mesi i pettegolezzi su zio e nipote si fecero sempre più forti. Hitler, però, era realmente innamorato di Geli e, probabilmente, fu l’ unica donna che il Führer pensò davvero di prendere in moglie (almeno fino agli ultimissimi istanti della sua vita). Hitler era però anche un amante molto possessivo.



Per quanto riguarda Geli, dei suoi sentimenti non c’ è dato sapere tutto. Di sicuro era lusingata dalle attenzioni che un uomo sempre più potente e indubbiamente affascinante come suo zio Adolf le rivolgeva. Contemporaneamente, però, si sentiva oppressa da Hitler e, non di meno, si dice, era disgustata dalle inclinazioni sessuali masochistiche del suo amante (inclinazioni non inusuali per un uomo dalla personalità forte e tirannica come Hitler). Questi sentimenti finirono per corrodere in lei l' amore per lo zio. Geli si sentiva schiavizzata: lei, così giovane, rinchiusa in casa e privata delle sue ambizioni perché il suo sempre più importante amante, che pure rivolgeva attenzioni anche ad altre donne, non voleva dividerla con nessuno e sospettava, non a torto, che la nipote avesse un amante (Geli ebbe una relazione con Emil Maurice, autista e domestico di Hitler).

Il 18 settembre del 1931 Geli si suicidò con un colpo di pistola in pieno torace. Per Hitler quello fu un colpo che definire durissimo sarebbe dir poco. Il futuro Führer era sconvolto; per diverse settimane fu insensibile a tutto ciò che lo circondava, anche alle importanti occasioni politiche che gli si presentavano. Forse si sentiva responsabile per quello che era avvenuto; sicuramente pensò di suicidarsi.

Per diverso tempo circolarono delle dicerie su un possibile coinvolgimento di Hitler nella morte di Geli, ma questo è uno dei pochi crimini che vengono attribuiti al Führer a torto.Una volta al potere il Führer ricordò sempre con commozione la morte di Geli; commissionò dei dipinti della nipote ad Adolf Ziegler, il suo pittore prediletto, e li lasciò nella loro casa di Monaco; fino alla morte si recò personalmente a porre dei fiori sotto a essi nel giorno della nascita e in quello della morte di Geli, ogni anno.

Anche la stanza di Geli al Berghof non fu mai intaccata, neanche nei massicci lavori di restauro della tenuta. Su tutta la sua figura nel Terzo Reich aleggiò sempre un alone di sacralità e mistero voluto da Hitler in nome del suo amore spezzato.


LA DONNA CHE AMAVA HITLER - Extra: Giuseppe Genna







Hitler che si rilassa in compagnia di Geli Raubal.









venerdì 23 gennaio 2009

ALBERT SPEER, L'UNICO AMICO DEL FUHRER

Albert Speer. Architetto, figlio di architetti. Ministro degli armamenti della Germania nazista. Inventore della Berlino Millenaria. Unico e solo amico di Adolf Hitler. Albert Speer venne giustamente ribattezzato, vista la sua connessione con il periodo storico da lui creato e vissuto direttamente come protagonista, l’architetto del diavolo.Nasce a Mannheim, in Germania, nel 1905.



Cresce in una famiglia dell’alta borghesia, vive tra gli agi e coltiva una forte ambizione sociale.Alla fine del ‘33, Speer riceve l’incarico dal Führer di seguire il restauro della Cancelleria di Berlino. È l’inizio della sua folgorante carriera politica. Sarà con Hitler fino alla fine, sebbene durante il processo di Norimberga rivelò di aver tentato di attentare al suo capo in un'occasione all'interno del bunker di Berlino.Al Processo di Norimberga, tra gli imputati Speer siede in seconda fila ma al contrario degli altri imputati, Speer non si dichiara estraneo ai crimini del nazionalsocialismo.




La sentenza lo riconosce colpevole di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ma “l’architetto del diavolo” viene condannato solamente a vent’anni perché tra i giudici non c’è un verdetto unanime a favore dell’impiccagione.Speer sconterà la sua prigionia nel carcere berlinese di Spandau, per poi uscirne il 30 settembre 1966 a bordo di una mercedes nera , fuori lo attende una calca di manifestanti, non propriamente entusiasti. Speer torna in libertà, morirà a Londra nel 1981.




Albert Speer fu l’esteta, il cerimoniere del nazional-socialismo, la mente delle imponenti opere, l’ideatore delle grandi geometrie destinate ad esaltare, nei propositi di Hitler, il glorioso reich millenario.Si considerava un tecnico lontano dai giochi della politica, ma rimase così affascinato dal leader nazista al punto da iscriversi al partito nazional-socialista; ma Speer era e rimaneva soprattutto un brillante e geniale architetto ed il suo spirito creativo non tardò ad affermarsi: nel gennaio 1933, il ministro della propaganda Goebbels gli commissionò dei lavori, tra cui quello di allestire la coreografia per l’oceanico raduno di partito del 1 maggio 1933; lo spettacolo straordinario ideato ed allestito dall’architetto, indusse Goebbels a nominarlo responsabile dei raduni del III reich e, soprattutto, a presentarlo, finalmente al fuhrer, che rimase folgorato dal suo genio creativo e dalla sua personalità.




Da quel momento in poi Speer, divenuto primo architetto del reich, avrebbe goduto, presso il fuhrer, di un credito mai concesso, prima di allora, a nessuno; Hitler, prima di affermarsi come statista, era stato, infatti, un mediocre artista che ora, da amante dell’arte qual’era, si trovava di fronte un luminare dell’estetica, subendone, inevitabilmente, il fascino.




I due stavano ore ed ore a discutere a disegnare, ad immaginare i futuri sviluppi estetici del grande reich, tra cui quello della creazione di una nuova e grandiosa Berlino, destinata a far rivivere i fasti e la magnificenza delle grandi meraviglie dell’antichità ed a trasformarsi, in tal modo, nella degna cornice per quella che sarebbe divenuta la capitale della grande Germania, padrona di un mondo dominato dalla suprema razza ariana.Speer esaltò Hitler con i progetti per la Berlino del futuro, con le imponenti geometrie dei raduni nazisti di Norimberga e delle olimpiadi del 1936, tutti volti a far risaltare la potenza e l’onnipotenza dell’impero con la croce uncinata.



La carriera dell’architetto conobbe una drastica impennata il 7 febbraio 1942, quando, alla morte del potentissimo ministro degli armamenti Todt, Speer ne fu nominato successore, riuscendo, anche in questa nuova veste, a non tradire le attese:la produzione bellica tedesca conobbe, infatti, sotto la sua meticolosa gestione, uno sviluppo ed un incremento notevole, anche grazie alle decine di migliaia di lavoratori forzati, reclutati, in tutta l’Europa occupata e mandati a morire di fatica e di stenti, in Germania, dallo stesso Speer, il quale era, dunque, perfettamente a conoscenza del loro terrificante destino , rendendosene perfettamente conto, di persona, in occasione delle sue frequenti visite agli stabilimenti, spesso trasferiti nelle cavità della terra per sfuggire ai bombardamenti alleati.




Con l’avvicinarsi della fine, Speer, ormai perfettamente conscio dell’inevitabile sconfitta, tentò di convincere alla resa il suo fuhrer, assumendo anche azzardate iniziative, inspiegabilmente perdonate da un Hitler che, viceversa, non aveva esitato a scatenare una purga senza precedenti, in seguito al fallito attentato del luglio 1944; ma Speer per Hitler era un qualcosa di diverso, una persona alla quale si sentiva particolarmente legato e alla quale tutto era permesso.Norimberga avrebbe dovuto diventare la sede di molti altri palazzi ufficiali nazisti, molti dei quali non vennero mai costruiti; ad esempio, lo Stadio Tedesco, che avrebbe dovuto contenere 400.000 spettatori ed essere la sede dei "Giochi Ariani", proposti come sostituzione dei Giochi Olimpici. Mentre pianificava questi edifici, Speer inventò la teoria del "valore delle rovine". Secondo questa teoria, entusiasticamente appoggiata da Hitler, tutti i nuovi edifici sarebbero stati costruiti in modo tale che avrebbero lasciato delle rovine esteticamente piacevoli per migliaia di anni a venire. Tali rovine sarebbero state una testimonianza della grandezza del Terzo Reich, allo stesso modo in cui le rovine dell'Antica Grecia o dell'Impero Romano erano simboli della grandezza delle rispettive civilizzazioni.




Nel 1937 Speer disegnò il padiglione tedesco per l'Esposizione Mondiale di Parigi, che si sarebbe trovato sul lato della strada direttamente in fronte al padiglione Sovietico. Venne pensato per rappresentare una massiccia difesa contro i massacri del comunismo. È da notare che entrambi i padiglioni vennero premiati con la medaglia d'oro per il loro design.Speer venne anche incaricato di fare dei piani per la ricostruzione di Berlino, che sarebbe diventata Germania, la capitale dello stato pangermanico. Il primo passo di questo piano fu lo Stadio Olimpico per le Olimpiadi Estive del 1936. Speer disegnò anche una nuova Cancelleria, che comprendeva un vasto salone che sarebbe stato lungo il doppio della Sala degli specchi del Palazzo di Versailles. Hitler volle che costruisse una terza e ancor più grande Cancelleria, anche se non venne mai iniziata. La seconda Cancelleria venne distrutta dall'Armata Rossa nel 1945.Quasi nessuno degli edifici pensati per la nuova Berlino furono mai costrutiti. Berlino avrebbe dovuto essere riorganizzata lungo un vialone centrale di 5 chilometri di lunghezza. All'estremità nord, Speer pianificò la costruizione di un enorme edificio a cupola, basato sulla Basilica di San Pietro a Roma. La cupola dell'edificio doveva essere incredibilmente grande; sarebbe stata alta oltre 200 metri e con un diametro di circa 250, sedici volte la cupola di San Pietro. All'estremità meridionale avrebbe trovato posto un Arco, basato sull'Arco di Trionfo di Parigi, ma anche in questo caso, molto più grande, almeno 120 metri in altezza, e l'arco parigino vi avrebbe potuto trovare posto sotto di esso. Lo scoppio della seconda guerra mondiale nel 1939 portò all'abbandono di questi progetti.




Suo figlio divenne anch'egli un architetto di successo, ed è stato responsabile del disegno dell'Expo 2000, l'Esposizione Mondiale che si svolse ad Hannover nel 2000. Ha anche disegnato la "Città Internazionale dell'Automobile" di Shanghai.Nell’autunno del 1944, quando ministro degli armamenti era Albert Speer, furono costruiti nei periodi di punta anche più di 2500 apparecchi al mese.Nel 1942”, ricordò Albert Speer, ”passava per un uomo letargico e decisamente insofferente al lavoro, sembrava perennemente assopito.” Lo sguardo vitreo rivelava che era sotto l’effetto della droga. ”Suscitava con sempre maggiore evidenza l’impressione di essere un uomo instabile”, ha scritto Albert Speer: ”Esponeva idee alla rinfusa, saltava da un argomento all’altro, sembrava immerso in un mondo irreale”.Il rapporto che si instaurò fra i due è illustrato da un raro documento cinematografico di quel periodo. Speer e Hitler si inoltrano in un cantiere. Prima parla Speer e spiega il progetto. Poi tocca a Hitler. Si mette gli occhiali, si fa dare carta e matita. Usa il ginocchio per appoggiare il foglio e comincia a fare degli schizzi. Speer, sull’attenti, osserva il maestro:”Ecco come si fa, Speer!” E il Fùhrer gli consegna il disegno.



















sabato 17 gennaio 2009

Le letture preferite di Adolf Hitler


Più di 16mila volumi. Alcuni rari, molti probabilmente mai letti, altri compulsati con foga, sottolineati e risottolineati con rapidi tratti a matita, glossati con punti di domanda e punti esclamativi, con tormentate chiose. Di che cosa parliamo? Della biblioteca privata di qualche grande intellettuale? Che so, un Voltaire, un Kant, un Croce?




No. Questa sterminata distesa di libri, con i suoi milioni di pagine, è appartenuta a un ex caporale bavarese divenuto Führer di Germania: Adolf Hitler. E non deve stupire che l'uomo che ha condannato al rogo centinaia di titoli passasse ore e ore tra migliaia di tomi. Lui stesso una volta disse di sé: «Quando una persona dà, deve anche prendere e io dai libri prendo quel che mi serve».




Molti altri dittatori hanno fatto altrettanto, rinforzando l'aura mitica del leader proprio a partire da una cultura enciclopedica (per lo più soltanto ostentata) che marcasse la loro diversità, la loro superiorità. Questo con buona pace di chi crede che sia solo l'ignoranza a creare la violenza e che, nella migliore delle ipotesi, bastino cospicue letture a eliminare l'ignoranza.




Così, leggendo il recentissimo La biblioteca di Hitler (Mondadori, pagg. 264, euro 19) di Timothy W. Ryback, penna del New Yorker e studioso della Shoah, si compie un interessante viaggio nella mente e nella storia personale di un uomo che è considerato da molti l'incarnazione del male assoluto. I libri, infatti, almeno quei 1200 volumi sopravvissuti al crollo del Terzo Reich, sono come orme lasciate sulla sabbia. Consentono, seppur con lacune, di ricostruire il percorso che ha trasformato un giovane pittore mitomane, scaraventato nel Maelstrom della Prima guerra mondiale, prima in un agitatore politico antisemita, e poi nell'artefice della più grande carneficina del '900.




Si scopre che il caporale baffuto, a pochi chilometri dal fronte, leggeva libri d'arte come Berlin di Max Osborn, e che molte delle sue idee sul bello sono nate da lì. Che amava Don Chisciotte, Robinson Crusoe, La capanna dello Zio Tom, e che si faceva trasportare dalla forza drammatica di William Shakespeare, preferendolo a Goethe e a Schiller.




Purtroppo, alternava queste letture con il pamphlet antisemita di Henry Ford The International Jew: the World Foremost Problem. E a partire dal 1931 gli capitò di trascurare la necessità di rafforzare la propria cultura da autodidatta, che rischiava sempre di metterlo in crisi, per interessarsi a un manuale sui gas tossici con un intero capitolo dedicato allo Zyklon B, che diventerà tristemente famoso per l'impiego che se ne fece nei lager.




Verrebbe da dire parafrasando Hannah Arendt: ecco la «culturalità del male», il male che nasce in biblioteca. Il male nutrito a suon di libri. Il discorso potrebbe avere un senso. Anche Stalin aveva un'enorme biblioteca privata, come ci ha raccontato lo storico russo Boris Semenovic Ilizarov nel suo Vita segreta di Stalin. Le letture, il profilo psicologico e intellettuale (Boroli). Il georgiano possedeva oltre 20mila volumi, anche per lenire il proprio complesso d'inferiorità nei confronti di Lenin.

sabato 10 gennaio 2009

LA CATTURA E L'UCCISIONE DI MUSSOLINI


La morte del Duce BENITO MUSSOLINI è stata sempre avvolta dal mistero, come la fine di tutti i grandi uomini del resto... Sul suo o sui suoi presunti carnefici ci sono state testimonianze discordanti, sia per quanto riguardava la loro precisa identità il luogo della "mattanza" sia per quanto riguardava il "modus operandi" degli assassini. Ricordo che sui libri di scuola la notizia della morte di Mussolini era riportata pressappoco così: "il 28 aprile del '45,il Duce veniva giustiziato a Milano nel Piazzale Loreto insieme alla Petacci ad altri gerarchi del regime". Tutti i più seri libri di storia sul fascismo, danno un rilievo minimo ai "modi" in cui Mussolini fu ucciso. E nessuno si sognerebbe mai di dire che quei libri sono lacunosi.Proprio perché libri di storia, e non di cronaca, quei testi e quegli autori non si pongono assolutamente il problema di "chi" abbia materialmente eliminato Mussolini. Più o meno tutti i libri di storia recitano questo:"il Duce fu giustiziato dal popolo italiano, dalla resistenza". Non importava se ad assassinarlo furono balordi o partigiani, soldati o patrioti,non importava se decisero di ucciderlo nonostante gli alleati angloamericani volevano che fosse consegnato vivo. Non importava se davanti al plotone di esecuzione finì misteriosamente anche Claretta Petacci, nei confronti della quale non fu mai pronunciata alcuna condanna o sentenza di morte da parte delCLN. Non importava nulla di tutto questo, l'unica cosa importante era uccidere il "tiranno" a tutti i costi e in "tutti i modi". Mussolini,negli anni della sua latitanza, aveva più volte confessato a sua moglie, Donna Rachele, che se un giorno fosse stato catturato dai partigiani, sicuramente lo avrebbero ucciso, non lo avrebbero mai processato. Questo perché egli sapeva che se lo avessero processato c'era il rischio che da accusato potesse diventare pubblico accusatore. Alla moglie disse anche di non fidarsi degli italiani e che se un giorno si fosse trovata in difficoltà poteva chiedere aiuto agli alleati americani, perché sarebbero stati sicuramente più clementi. Tutti gli uomini politici dell'epoca, benché appartenenti a partiti diversi, hanno dimostrato di aver accolto di buon grado la "versione tradizionale" sull'uccisione di Mussolini, quella cioè pubblicata sui libri di storia. Il punto da chiarire allora resta un altro: "il perché della decisione, presa a tavolino dai capi partigiani, nella notte tra il 27 e il 28 aprile 1945, il perché della decisione di CONDANNA A MORTE".



Una testimonianza agghiacciante rimette in discussione la "verità storica" su quel tragico pomeriggio del 28aprile 1945




Questa che state per leggere è un'intervista radiofonica tra un giornalista e un medico legale che affermava di aver assistito all'autopsia dei cadaveri di Mussolini e della Petacci. Il medico affermava che all'epoca dei fatti era poco più che ventenne e che egli stesso rimase inorridito dallo spettacolo a cui dovette assistere.



Giornalista: "Così

lei avrebbe assistito all'autopsia di Benito Mussolini e di Claretta Petacci?"


Medico legale: "Certamente,

e posso affermarti con certezza che la morte dei due non è avvenuta così...come l'hanno raccontata per tutti questi anni"


Giornalista: "

No? Quindi lei afferma che la morte non sarebbe avvenuta per fucilazione?"


Medico legale: "Non

solo la morte non è avvenuta principalmente per fucilazione, ma anche il luogo dove sono stati giustiziati non è Piazzale Loreto! A Piazzale Loreto sono giunti cadaveri"


Giornalista: "Che

a Piazzale Loreto siano giunti cadaveri è ormai risaputo, ma la morte come sarebbe avvenuta?


Medico legale: "Secondo

alcuni testimoni attendibili, Mussolini e la Petacci furono sorpresi di notte dai partigiani in un casale nei pressi di Giulino di Mezzegra, ma più precisamente nella frazione di Bonzanigo al casale De Maria. In seguito vennero picchiati, seviziati, malmenati, infine soffocati. Dopo la morte, e solo dopo la morte, furono inferti loro dei colpi di pistola"


Giornalista: "Ma

come si giunse a questa conclusione?"


Medico legale: "

Premetto che Mussolini e la Petacci al momento del decesso erano nudi, in quanto le ferite provocate sulla pelle nuda sono ben diverse da quelle provocate su dei corpi con degli abiti, e questo lo può confermare qualunque medico legale. Poi,si aggiunse la vasta zona di ematoma alla base del collo di entrambi, La Petaccipresentava ferite ano-vaginali; si pensò che le fu introdotto negli orifizi un bastone o un manico di scopa così violentemente da provocarle emorragie interne gravissime. All'interno della zona vaginale e anale, furono trovate tracce di liquido seminale, facendo presupporre che si trattò di uno stupro di gruppo. Il Duce, a sua volta, non fu risparmiato, infatti, prima che fosse ucciso, fu sottoposto a un vero e proprio supplizio in quanto anche'egli violentato e seviziato con l'ausilio di un bastone, poi, presumibilmente quando'era ancora vivo, fu coperto di urina"


Giornalista: "Ma


come mai è così sicuro di quello che dice?"


Medico legale: "Del

fatto che erano nudi al momento del decesso non vi sono dubbi, come le ho giaietto, le ferite su un corpo nudo sono riconoscibili, poi, i fori dei proiettili sui corpi, non corrispondevano ai fori dei proiettili sui vestiti. Infine, anche perché era risaputo il fatto che Mussolini avesse la gamba sinistra più corta dell'altra, e negli stivali, al momento dell'esame autoptico non c'era il rialzo di 2 cm che lui usava abitualmente oltre al fatto che gli stivali non erano della sua misura. Riguardo alle cause di morte per soffocamento non ci sono dubbi anche se furono determinanti le numerose emorragie interne causate dalle sevizie".



La versione "ufficiale" (una delle tante...)


Questa è invece una delle tre o quattro versioni contraddittorie fornite da Walter Audisio, alias il "Colonnello Valerio" apparsa sul giornale del PCI l'Unità in data 13 dicembre 1945.


Mussolini e la Petacci furono catturati dai partigiani del"Colonnello Valerio" a Dongo, mentre cercavano di fuggire in Svizzera.Questa è la testimonianza rilasciata al giornale:


«Mussolini si mise obbediente con la schiena al muro, al posto indicato, con la Petacci al fianco destro. Improvvisamente pronuncio la sentenza di condanna contro il criminale di guerra: 'Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano'. Mussolini appare annientato. La Petacci gli butta le braccia sulle spalle e dice: 'Mussolini non deve morire'. ''Mettiti al tuo posto se non vuoi morire anche tu', dico. La donna torna con un salto al suo posto, palesando con lo sguardo che bene aveva compreso il significato di quell''anche'.


«Avevo per precauzione provato il mio mitra pochi minuti prima, sicché con tutta la tranquillità mi misi a tre passi di distanza in posizione di sparo.Faccio scattare il grilletto ma i colpi non partono. Il mitra era inceppato.Manovro l'otturatore, ritento il tiro, ma l'arma del 'regime' decisamente non voleva sparare. Cedo allora il mitra al compagno Guido, estraggo la pistola, punto per il tiro ma, sembra una fatalità, la pistola non spara.Mussolini non sembra essersene accorto. Non si accorge ormai più di niente.Passò la pistola a Guido, impugno il mitra per la canna, pronto a servirmene come di una clava e chiamo a gran voce Bill che mi porti il suo MAS.Il vice commissario della 52ª, scende di corsa e di corsa risale, dopo che abbiamo scambiato i mitra, a una decina di passi da Mussolini, che non avevo perduto di vista un istante e che tremava sempre. Erano intanto trascorsi alcuni minuti, che qualunque condannato a morte avrebbe sfruttato per tentare anche una fuga disperata o comunque una reazione di lotta.Invece colui che doveva vivere come un 'leone' era un povero cencio tremolante e disfatto, incapace di muoversi. Nel breve spazio di tempo che Bill aveva impiegato a portarmi il suo mitra, mi ero trovato veramente solo con Mussolini. Come avevo sognato. C'era Guido, ma era freddo e distante,quasi non fosse un uomo ma un testimonio impassibile; c'era la Petacci, alfianco di 'lui' che quasi lo toccava col gomito, ma non contava. C'eravamo lui ed io, lui che doveva morire e io che dovevo ucciderlo. Quando mi fui di nuovo piantato davanti a lui con il MAS in mano, scaricai cinque colpi al cuore del criminale di guerra N.2 che si afflosciò sulle ginocchia, appoggiato al muro, con la testa leggermente reclinata sul petto.Non era morto. Tirai ancora una sventagliata rabbiosa di quattro colpi. La Petacci che gli stava al fianco impietrita e che nel frattempo aveva perso ogni nozione di sé, cadde anche lei di quarto a terra, rigida come un legno, e rimase stecchita sull'erba umida. Resto per un paio di minuti accanto ai due giustiziati, per constatare che il loro trapasso fosse definitivo. Mussolini respirava ancora e gli diressi un sesto colpo dritto al cuore. L'autopsia constatò più tardi che l'ultima pallottola gli aveva reciso netto l'aorta. Erano le 16,10 del 28 aprile 1945».




Petacci Clara (Roma 1912 - Giulino di Mezzegra 1945), attrice italiana. Si unì sentimentalmente a Mussolini nel 1932 e gli fu vicina negli ultimi anni della sua vita, seguendone la tragica sorte. Arrestata dopo il 25 luglio 1943, al crollo del regime fascista, liberata l'8settembre, giorno in cui fu annunciato l'armistizio con gli angloamericani, fu assassinata insieme a Mussolini il 28 aprile1945. Nella foto si può notare il corpo oramai senza vita della Petacci, prima della "mattanza" in Piazzale Loreto.L'immagine mette in evidenza lo squarcio sul petto causato da numerosi colpi di mitra.


In seguito, si saprà che Claretta Petacci non ha mai avuto un ruolo nella politica ne ha mai preso decisioni riguardanti la vita del Paese.Eppure, nonostante questo, i partigiani comunisti, vollero condannarla ugualmente a morte, senza un preciso motivo, senza ragione. Fu la compagna di Mussolini e questo già bastava, perciò la sua fine era segnata. C'era gente che era stata massacrata dai partigiani assassini per meno, molto meno, per niente. Un ordine preciso del CLN, inviato personalmente dal prof. Pietro Bucalossi (il partigiano Guido) all'Istituto di Medicina Legale di Milano, impedì che si procedesse alla trascrizione dell'esame autoptico sul cadavere della Petacci. Questo perché volevano nascondere le sevizie e le torture subite dalla povera donna prima che i "coraggiosi partigiani" gli concedessero la "grazia della morte". In letteratura è difficile trovare episodi delittuosi, violenze, massacri, crimini cruenti ed efferati come quelli perpetrati dai partigiani comunisti italiani ai danni di persone innocenti.


Il colonnello Valerio: "ho ucciso io Mussolini e la Petacci!"

Il colonnello Valerio, alias Giovanbattista Magnoli, alias Walter Audisio, nasce ad Alessandria il 1909. Divenuto ragioniere, si iscrive al partito comunista clandestino. Nel 1934 il servizio segreto fascista ne scopre l'attività politica. Arrestato e processato, viene confinato a Ponza. Successivamente verrà graziato per ordine del Duce. Nel 1943, nominato colonnello dal CLNAI assume il nome di battaglia di "Valerio".Nei giorni della liberazione ha compiti di "pulizia". Le esecuzioni sommarie, eseguite da lui personalmente o da membri della sua colonna partigiana, sono all'ordine del giorno. Nel dicembre del 1945, a distanza di otto mesi dalla morte del Duce, Walter Audisio si dichiarerà esecutore meteriale dell'eliminazione di Mussolini e della Petacci. Per i tre anni successivi, ricoprirà la carica di deputato nel PCI. Ritiratosi dalla vita politica, vive a Roma dove è impiegato all'ENI. Morirà, in seguito ad un infarto, nell'ottobre del 1973



Nessuna gloria per l'uomo che eliminò il"tiranno" Mussolini?




Come mai il PCI si dimenticò dell'uomo che "liberò" l'Italia dal "MOSTRO"?



Perchè la sua morte non fu commemorata dai membri del partito in cui militava?



Forse non fu davvero Walter Audisio a uccidere Mussolini?


È davvero strano e incomprensibile che una così «radiosa» cronaca non sia stata ripresa dai fogli marxisti e dai giornali «conciliari»,quando l'11 ottobre 1973 fu data notizia della morte, per infarto, diWalter Audisio. Dopotutto egli, benché da molti anni non avesse fatto parlare di sé, era morto in una stagione favorevole a «rievocazioni»di tal fatta: una stagione ricca di rilanci e di rigurgiti antifascisti; una stagione fiorita di ricordi gloriosi, di commemorazioni presidenziali, di innumerevoli cronache televisive destinate a far capire alla gente quanto grandi fossero stati i meriti ele prodezze dei resistenti, quanto mostruosi e imperdonabili fossero stati gli errori e i sistemi del tiranno Mussolini e quanto necessario,dunque, fosse il neo-antifascismo, chiamato di nuovo alla riscossa e ad unirsi, compatto, contro i fascisti, in procinto di attentare di nuovo alla democrazia e alla libertà.


Dunque, la morte del «colonnello Valerio» avrebbe ben meritato di diventare automaticamente, in un tal clima di odio alimentato a tutti ilivelli di potere, in una stagione di caccia agli «eredi di Mussolini», una morte «da prima pagina»: una morte da compiangere in manifestazioni nazionali, onorate dalla presenza del Capodello Stato e dai massimi e dai minori esponenti della resistenza e del neo-antifascismo.


Una morte,insomma, che avrebbe potuto servire alla «causa» e consentire ai celebratori dell'Eroe Defunto di far maturare, sull'albero neo-antifascista, nuovi e rossi e succosi frutti di odio contro ilTiranno e i suoi biechi «nostalgici».


Invece, contro tutte le previsioni, la notizia di quella morte è quasi passata sotto silenzio. Non tutti i giornali l'hanno riportata, e quelli che hanno ritenuto di parlare un poco del morto, lo hanno fatto in tono minore, sdrammatizzato, e nelle pagine interne. Soltanto l'Unità, su una sola colonna della sua prima pagina del 12 ottobre 1973, diede la notizia del «grande lutto per 1'antifascismo» (una notizia che dopo poche righe «girava» subito in seconda pagina), accennando «al vasto cordoglio negli ambienti dell'antifascismo e della resistenza», ricordando con una certa freddezza la vita e le opere del caro defunto e riportando un telegramma di Longo alla vedova in cui si faceva cenno al ruolo avutoda Audisio «nei giorni culminanti della guerra partigiana, quando venne operato un taglio netto con un passato di vergogne e di rovine». Niente di più, nessuna particolare esaltazione, e tutto con un tono sommesso,quasi pudico; tale da far pensare ad un senso di colpa dei compagni comunisti, come se quello compiuto da Valerio-Audisio, anziché un atto di giustizia e di eroismo, fosse stato (come fu) un delitto, un crimine comune. La stessa impressione hanno dato le cronache dei giornaletti e giornaloni del regime, che hanno parlato del morto come di un omino piccino picciò, grigio, semplice, riservato, privo di ambizioni, quasi «incredibile»come «giustiziere» e, poverino, persino «messo da parte»,in tutti questi anni democratici, dallo stesso partito comunista. Iltono cui s'è fatto cenno a questo «accantonamento» del «colonnelloValerio», nonostante il suo glorioso e storico «precedente», pareva proprio destinato a far credere ai lettori che in qualche modo il PCI pareva nutrire un pur inconfessabile senso di colpa per l'azione diAudisio. Altrimenti, perché mai uno che aveva «operato un taglio netto con le vergogne e le rovine del passato», (e ciò nel momento in cui aveva «reciso di netto l'aorta» di Mussolini con l'ultimo colpo di mitra), era «finito nell'ombra» anno dopo anno e non era mai stato nominato nemmeno in questi tempi di antifascismo ruggente?


Così, mentre l'Unità s'è limitata a sintetizzare una vita pur tanto «eroica»,mentre l'Avanti! e il Paese Sera han dato notizia di quel «gravissimo lutto» soltanto in seconda pagina con evidente distacco, alcuni altri giornali han dedicato un pochino più di spazio.Per dire, come ha detto Il Giorno, che sì, Audisio era stato «un comunista tutto di un pezzo», ma in fondo «da buon piemontese conosceva benissimo i limiti del suo personaggio», «che il suo quartod'ora era passato da un pezzo».


E che era stato un appassionato giocatore di calcio. Aveva persino «indossato la maglia dei pulcini dell'Alessandria». Una annotazione capace di toccare il cuore di questo nostro popolo sportivo ed emotivo, e magari per una inconscia trasposizione, capace di far pensare al «giustiziere»non soltanto come ad un «pulcino» da squadra di calcio, ma addirittura come ad un tenero, dolce, fragile e inerme pulcino piumoso.Una annotazione suggestiva, quindi, che cancellava il vero «Valerio»:quello che «con tutta tranquillità» s'era inferocito contro «l'arma del regime» che, per strana «fatalità», non voleva aiutarlo a «far giustizia»: quello che s'era sentito un leone davanti all'uomo tanto odiato e che pure era lo stesso che un giorno lo aveva «graziato».


Così, WalterAudisio, se n'è andato come un «pulcino», portando con sél'immagine del liberatore a tu per tu con «lui che doveva morire»mentre «Valerio», sbavando di gioia e di radiosa soddisfazione, «doveva ucciderlo». L'articolista del Giorno,con una sorta di intima e malcelata angoscia e deplorazione, ha concluso scrivendo che il suo «cuore non ha retto» e il poverino è morto «dimenticato da tutti».


Il Corriere della Sera, invece, pur alimentando vagamente l'idea di un «Valerio»uomo grigio, si è azzardato ad entrare nei suoi «fasti partigiani» e, sostituendosi ai fogli marxisti, ha colto fior da fiore dalle «relazioni» sulla fine di Mussolini (che furono tre), ma non tanto per rimitizzare il «giustiziere», quanto per smitizzare il bieco dittatore. Infatti, il foglio della compagna Giulia Maria, ha trascritto quella parte della terza relazione in cui Audisio aveva annotato, rivelando una viva sensibilità di uomo di famiglia, che il tiranno, mentre stava lì per essere fatto fuori, «non disse una parola, non il nome di un figlio, non quello della madre, della moglie,non un grido». Il Corriere, trasformatosi per l'occasione in un «inserto» dell'Unità, ha raccontato anche altre cose ma non ha detto, per esempio, che le tre relazioni di «Valerio» erano piene di contraddizioni gravi, determinate anche dal fatto che la prima era stata fatta «a caldo» a Milano e con poche parole, e la seconda e la terza a Roma, sotto il controllo diretto dei più alti gerarchi comunisti delle Botteghe Oscure. Ma il Corriere s'è ben guardato di mettere in rilievo, che quelle contraddizioni nei tre rapporti, dimostravano che «Valerio» s'era prima di tutto preoccupato di «giustificare» la morte della Petacci (che nessuno aveva «condannato» a morte); poi s'era preoccupato di sottolineare che era stata «l'ultima pallottola» ad ammazzareMussolini, così duro a morire (e ciò per vantare tutto il merito dell'atto eroico); e infine s'era preoccupato di dimostrare che il mitra che aveva ucciso Mussolini si trovava in mano sua: e ciò per contestare certe voci che correvano, secondo le quali non era stato lui il vero giustiziere, bensì il compagno Michele Moretti, quel che vien chiamato «Guido» nella «Relazione numero 2» e descritto da Audisio (che lo detestava), come un «testimonio impassibile». Il Corriere, perciò,non ha voluto togliere il «merito» al «Valerio», e così non ha nemmeno registrato quella parte del «Rapporto Zingales» (chesi trova nell'Archivio di Dongo) in cui il Procuratore incaricato di farle indagini sulla scomparsa del famoso tesoro annotò: «Valerio porta via Mussolini e Claretta, che il giorno dopo Moretti uccide.Valerio fa da Maramaldo».


Per non far passar Audisio da «maramaldo» (tanto più che «Valerio» s'era comunque sempre assunta la parte del «giustiziere»), il giornalone della capitalista rossa Giulia Maria, la cui famiglia s'è fatta montagne di quattrini al tempo del tiranno, ha così concluso il suo «ritratti nodi eroe»: «Era ed è rimasto fino all'ultimo un fedele uomo di partito e il partito, oggi, gli rende l'ultimo omaggio». Parole intrise di contenuta commozione e di rispetto per la coerenza e la fedeltà di quel buon compagno, di quel brav'uomo che aveva tirato quella «sventagliata rabbiosa», sol perché animato dalla santa rabbia del liberatore, e che aveva ammazzato, chissà come e chissà perché, anche la Petacci: la stessa cui aveva detto di farsi più in là,se non voleva crepare «anche» lei. Un «anche» che doveva aver fatto credere a quella sciocchina (che era fuori di sé)che lei sarebbe stata risparmiata. E invece, guarda caso, era caduta a terra «rigida come un legno e stecchita nell'erba umida».


Ma nessuno ha perduto tempo in questi particolari; nessuno ha voluto «ricordare» quel giorno, quei fatti, quei tempi, quegli «eroismi» e altri (come l'assassinio dei partigiani Gianna e Neri, rei di non esser feroci come dovevano, invece, essere due veri «eroi della libertà»). Nessuno ha ricordato l'«oro di Dongo» e il tentativo dei vari responsabili resistenziali di negare la loro responsabilità nella uccisione di Mussolini con la esposizione dei cadaveri in Piazzale Loreto. Nessuno ha raccontato con quanto calore Sandro Pertini, allarmato dallo sdegno delle Forze Alleate per quel crimine epreoccupato che la resistenza potesse «perdere la faccia», aveva più tardi convinto i colleghi del CLNAI, sulla opportunità di dare «una parvenza giuridica» alle esecuzioni sommarie di Dongo e a quelle successive. E non sono state ricordate nemmeno le parole concui Parri aveva deplorato l'assassinio della Petacci: nemmeno dallo stesso Parri, che ha mandato le sue condoglianze per la morte di quel fiero assassino di donne. Nessuno, infine ha ricordato che «Valerio», aveva ottenuto la grazia da Mussolini, e che in data 10 luglio 1939, la Legione dei Carabinieri di Alessandria aveva inviato, al distretto militare della stessa città, la seguente comunicazione:


«Il sottotenente di complemento in Congedo Audisio Walter; per atto di clemenza del Duce, è stato dimesso dalla colonia di confino di Ponza, prendendo domicilio in via Lungo Tanaro 25 Casa Ceva».


Quindi MUSSOLINI avrebbe graziato il suo carnefice?


Tutti hanno ignorato questo «particolare», per non mancare di riguardo al povero morto, anche se non era «un morto da prima pagina». E tutti han preferito, forse per un "ordine di scuderia", trasformare anche i giorni radiosi in giorni grigi e il «giustiziere», in un omino grigio, umile, nato da povera famiglia, diventato deputato così,come per caso, e poi «messo da parte»: forse perché era così nemico d'ogni fasto, così alieno da ogni pubblicità, così genuino nella sua semplicità umana, da rifuggire le pompe del mondo e della politica trionfalistica.


Ma, più probabilmente il caro defunto è stato sepolto in fretta, senza celebrazioni, senza commemorazioni presidenziali, senza adunate oceaniche con le rosse bandiere, senza fanfare e «senza impegno», non tanto perché era «stato dimenticato», quanto per impedire chegli italiani «ricordassero» i tempi in cui il comunismo ammazzava, insieme ai «tiranni», anche le donne e i bambini e i vecchi e i preti fascisti, e soprattutto «presunti tali». La stampa nazionale, dunque, d'accordo con il PCI, non ha fatto versare fiumi di lacrime e non ha voluto «specificare» le prodezze di «Valerio» e compagni, sol per alimentare la leggenda del «comunismo dal volto umano».


Dopo la crudele "mattanza" operata dai partigiani, i corpi straziati di Benito Mussolini Duce del fascismo e Claretta Petacci, vennero portati a Milano e appesi (come mostrano le foto) a Piazzale Loreto affinchè tutti potessero vederli. La folla inferocita si accanì contro quei corpi in maniera animalesca, tra insulti, spari e sputi. Una donna addirittura sparò dei colpi di pistola al Duce dicendo: "un colpo per ogni figlio che hai mandato a morire in guerra". Quando i corpi vennero recuperati e accantonati vicino ad una parete in attesa che fossero prelevati, qualcuno posò su di loro un fiore, qualcun'altromise la mano di Mussolini accanto quella di Claretta. A distanza di oltre 50 anni da quel tragico episodio, la verità su cosa sia accaduto realmente, quel pomeriggio del 28 aprile del '45, è ancora avvolta dal mistero. Quel che è certo è che Walter Audisio ha fornito molte versioni discordanti sulla presunta esecuzione di Mussolini e di Claretta Petacci. Gli assassini del Duce del fascismo sono stati sicuramente altri, rimasti nell'ombra. La verità rimarrà nascosta,forse, per sempre.


La verità, il perchè del mistero di tante interpretazioni «sfocate»legate a questa vicenda , è tutta qui: nella premeditata intenzione di convincere gli italiani che i comunisti son diventati buoni, pacifici, democratici e pietosi. A tal punto,da vergognarsi, forse, d'aver avuto fra loro uno come il «colonnello Valerio», ammazzatore anche di donne. E a tal punto si son convertiti, da provar forse un senso pur inconfessato di pietà anche per il «mostro» Mussolini. Altrimenti, per commemorare la scomparsa del "caro estinto" Walter Audisio, avrebbero coperto di drappi rossi e neri l'Italia (come è la loro usanza) per il «grave lutto dell'antifascismo».Altrimenti, avrebbero «usato» la morte dell'Eroe per servirela grande, la nobile causa dell'antifascismo vecchio e nuovo...

REVISIONISMO / NEGAZIONISMO MA L'OLOCAUSTO E' DAVVERO SUCCESSO ??? C'E' SOTTO UNA COSPIRAZIONE OCCULTA ??? INVESTIGARE SULLA VERITA' E' REATO ???



Il revisionismo sull'Olocausto è un ambito che tende ad assumere caratteristiche scientifiche o antiscientifiche che spesso si confondono e si sovrappongono fra di loro.



In genere il revisionismo scientifico tende ad analizzare le fonti e le modalità della persecuzione antiebraica tedesca, senza argomenti preconcetti. Il revisionismo antiscientifico (o parascientifico) invece parte dal presupposto che lo sterminio di milioni di ebrei durante la seconda guerra mondiale non sia mai avvenuto (o sia avvenuto in proporzioni enormemente minori a quanto conclamato) e pertanto viene definito più propriamente negazionismo.




Principale argomento del negazionismo sull olocausto:



* Sull'olocausto, il negazionismo sostiene, con varie argomentazioni, che esso non sarebbe mai avvenuto, pur accettando che una persecuzione vi sia stata, ma sostanzialmente quasi "indolore" fin quando la Germania, devastata dalla guerra, non ha potuto più assicurare cibo e assistenza sanitaria agli internati nei ghetti e nei lager, che avrebbero quindi iniziato a morire in gran copìa, ma sempre in un numero molto inferiore ai 4 o 6 milioni comunemente accettati dalla storiografia ufficiale.



Il "padre del negazionismo" è considerato Paul Rassinier. Il punto focale del movimento revisionista è costituito dall'Institute for Historical Review, dal periodico di tale istituto e dal congresso annuale tenuto e popolato da studiosi tra i quali il direttore dell'istituto Mark Weber, David Irving, Robert Faurisson, Ernst Zundel, Germar Rudolf e David Cole.





LA VERITA' IN SE E LA RICERCA DELLA VERITA'

NON DEVE MAI FAR PAURA !!!









CONFERENZA DI JURGEN GRAF







UNA COSPIRAZIONE SIONISTA - PER LORO IL FINE
GIUSTIFICA I MEZZI !!




L'OCCUPAZIONE DEL TERRITORIO PALESTINESE








ISRAELE



PURTROPPO LA VIOLENZA GENERA ALTRA VIOLENZA.

martedì 6 gennaio 2009

LEON DEGRELLE



Nato da una famiglia di origine francese espatriata nel 1901, dopo l’espulsione dei gesuiti di Francia, Leon Degrelle frequentò la scuola al Collegio di Notre Dame de la Paix a Namur (Belgio). Durante il periodo degli studi a Loviano (1927 – 1930) inizia ad occuparsi di giornalismo (L’Avant Garde), di letteratura e di poesia. Nel 1929 diventa redattore capo del quotidiano “Il XX Secolo” di Bruxelles. Viaggia in Italia, conosce il Fascismo e l’Azione Cattolica. Vive qualche tempo in Messico, clandestino, in mezzo ai partigiani cattolici, i “Cristeros”.
Tornato nel 1931 dirige l’Azione Cattolica belga e poi, nel 1935, fonda il movimento Rex. Come nella maggior parte degli Stati europei, negli anni tra i due conflitti mondiali, la democrazia parlamentare fu messa in causa da molti settori politici perché non riusciva a risolvere lo stato di crisi del Belgio. Dentro al partito cattolico i tentativi di rinnovamento si diversificarono in varie direzioni: la decristianizzazione voluta da Picard cercava di raccogliere simpatie a sinistra, mentre l’altra corrente, di carattere borghese, seguiva una linea politica filo – francese ed antitedesca. Solo Degrelle riuscì a superare questa crisi grazie alla sua figura di leader oratore, giornalista, poeta, deputato e soldato. Appoggiò in pieno la causa Nazionalsocialista, tanto che decise di partire con un gruppo di volontari per il fronte dell’Est l’8 agosto 1941 come soldato semplice. Tra il ’41 ed il ’43 combattè sul Caucaso, conquistando i gradi sul campo di battaglia fino a diventare un comandante della Waffen SS.



Continuò la sua scalata nella scuola di Bad Tolz. Tornato in Russia, si distinse nel rompere l’accerchiamento sovietico a Tcherkassy. Fu convocato da Hitler che lo designò Cavaliere della Croce di ferro, rendendolo popolarissimo anche in Germania. A guerra ormai perduta riuscì rocambolescamente a raggiungere le coste spagnole dove iniziò il suo dopoguerra fra alti e bassi finanziari, ma sempre fermo nella sua fede. Riportiamo di seguito alcuni brani tratti da un’intervista avvenuta nella sua casa di Malaga il 1°marzo 1988.
“Noi (…) eravamo soldati che proiettavano nella lotta le loro idee, e che si preparavano alla costruzione dell’Europa. Ma questa concezione dell’Europa non è arrivata subito (…). È stata la guerra che, spingendo i Tedeschi fuori dal proprio Paese ha fatto capire loro cosa succedeva negli altri Paesi. Ha fatto anche sì che negli altri Paesi vedessero i Tedeschi e potessero rendersi conto di cosa fossero, e che eravamo tutti degli europei, nonostante tutte le lotte e gli odi eravamo tutti la stessa gente (…). C’era il grande motore germanico, la Germania è nel centro dell’Europa, è un Paese che ha il senso dell’organizzazione, del lavoro, della perfezione, vi stava benissimo come elemento trainante. Ma accanto esisteva tutto questo meraviglioso mondo occidentale e la sua civiltà bimillenaria.



Che cos’era Berlino con i maiali che camminavano nella sabbia della strada, mentre Parigi era uno dei centri maggiori dell’universo, 1500 anni dopo che Roma era stata la capitale del Mondo? Era evidente che questo progetto germanico da solo non avrebbe mai potuto fare l’Europa, aveva bisogno del grande sostegno occidentale, ed è lì che ho concentrato i miei sforzi, per far risorgere una grande unità occidentale da unire al centro Europa ma anche all’universo mondo slavo (…). Questo è sempre stato il mio progetto (…). L’Europa dal Mare del Nord fino a Vladivostok. Un’Europa che avrebbe dato ai giovani di oggi qualsiasi possibilità, un’Europa di 10000 Km di estensione per le attività di tutta la gioventù, invece di avere, come oggi, 16 milioni di disoccupati nel mercato comune. Tutti questi giovani avrebbero potuto realizzare qualsiasi cosa passasse loro per la testa (…)



Chiaramente, noi abbiamo perso la guerra non perché ci mancasse coraggio; per quattro anni l’epopea dell’Europa sul fronte russo è stata la più grande avventura militare della storia. Anche questo è incredibile, che la gente non dia importanza ad un fatto del genere (…), che per quattro anni ci sia stato un fronte favoloso, di 3000 Km di lunghezza, una lotta che ha messo di fronte decine di milioni di uomini; il caso delle Waffen SS, un esercito di un milione di volontari, non si era mai vista una cosa simile. Di questo non se ne parla, né dell’eroismo inaudito che è stato dimostrato. Si pensi solo al percorso da Stalingrado a Berlino; abbiamo resistito 1000 giorni, 1000 giorni resistendo palmo a palmo, sacrificio dopo sacrificio, centinaia di migliaia di uomini che morivano per impedire che i sovietici avanzassero troppo in fretta. Con Stalin che diceva: “Lo zar è andato a Parigi. Ci andrò anch’io”. Era evidente che se avessimo fatto come i francesi nel 1940, squagliarcela quando la lotta diventava troppo pericolosa, i russi avrebbero conquistato tutta l’Europa in un batter d’occhio, molto prima che gli americani sbarcassero in Normandia, 1000 giorni! E se avessimo resistito soltanto 100 giorni, sarebbero arrivati a Parigi o sarebbero andati a dormire nel letto del maresciallo Petain a Vichy. Noi abbiamo salvato l’Europa o quanto ne rimane ancora adesso.


Se i francesi non sono come i cecoslovacchi è unicamente perché siamo morti a migliaia per loro. E allora invece di insultarci dalla mattina alla sera ci dovrebbero dire: “Siete stati veramente bravi, grazie!” (…). Si dice sempre: “Ma perché Hitler si è lanciato in questa avventura?”. Si è lanciato perché, se avesse aspettato un anno o due, Stalin sarebbe arrivato di corsa. Ora ci sono tutti i documenti che stabiliscono che aveva creato più di 120 nuove divisioni, 60 nuovi campi di aviazione. Che già allora era arrivato ad avere 32000 carri armati contro i 3000 dei tedeschi; è in quel momento che hanno preteso i Balcani e abbiamo capito che era finita. (…) La vittoria degli altri è stata un disastro. Tutto quello che hanno portato è una falsa civiltà, la civiltà americana, purtroppo, la civiltà dei consumi, del piacere, si pensa solo ad andare a divertirsi, gioie passeggere; la vita di famiglia è stata annientata, la vita religiosa distrutta: tutto questo è molto demoralizzante. Un giovane si chiede: “Ma cosa si può fare? (…) Ma si può ancora sperare?”. Rispondo loro: in tutte le epoche nel mondo ci sono state grandi crisi e a volte quando non è stato fatto uno sforzo tutto è crollato, come ad esempio la caduta dell’Impero Romano; prima c’era stata quella della Grecia, prima quella dell’Egitto.


Ma ci sono state anche grandi rinascite, come ad esempio l’Italia che ha vissuto la decomposizione e ora è più importante dell’Inghilterra; la Germania, che 50 anni fa non era altro che rovine, ora è un Paese fiorente. Significa che si può sempre ricreare. Diranno: “Ma non siamo numerosi”, ma non è un numero a fare la forza dei popoli e dei grandi movimenti rivoluzionari, è la potenza dell’anima, è la gente con una grande volontà, un grande ideale che si vuole vedere trionfare (…). Ebbene è a questo che bisogna credere, credere che tutte le possibilità sono nell’uomo, che se i giovani le vogliono e lo vogliono, un giorno troveranno l’opportunità e un giorno nascerà l’uomo, perché tutto è una questione di uomini. È il grande uomo a raccogliere le aspirazioni di tutti e a farle vincere. E la sfortuna dell’Europa di oggi è che non c’è nessuno. Ai nostri tempi ce n’erano finché si voleva: c’era Hitler, c’era Mussolini, c’ero io in Belgio, c’era Franco, c’erano i polacchi, c’erano i turchi, tutti avevano un capo, era sorprendente; ora non ci sono più che larve politiche (…). Per 50 anni l’Europa sono stati incapaci di farla, dopo 50 anni sono ancora lì che dissertano di miserabili questioni finanziarie, questioni di salami e maiali, di polli; sono ancora lì. Così si vede che questa soluzione è falsa; la sola vera è quella che abbiamo avuto noi (…). Sul caminetto del mio esilio ho fatto incidere queste parole: “Un po’ di fuoco in un angolino del mondo e tutti i miracoli di grandezza restano possibili.” Tutto è possibile, ragazzo ragazza che mi ascolti, fede nella vita!”.




Omaggio a Leon degrelle



Leon Degrelle e Adolf Hitler






Leon Degrelle- sempre Hitlerien


Leon Degrelle-WALLONIE






Discorso di Leon Degrelle




Leon Degrelle sull'Islam




Leon Degrelle- per la famiglia




Leon Degrelle- Viso e ritorno



Leon Degrelle - La guerra inizia illuminati



Onore Waffen-SS



Canzone di Massimo Morsello in ricordo di Leon Degrelle


Massimo Morsello "Leon Degrelle"




Aforismi di Leon Degrelle

"-Una volta che marcisce il sangue, tutto si perde."



-"Tutti rinunciano ai beni dell'universo morale e dell'eternità spirituale, che sarebbero alla portata di ognuno".



-"Una disfatta apparentemente inutile non lo è mai in assoluto".



-"Una ferrea volontà vale più di mille impotenze."



-"Quando un potere è forte la Chiesa ha paura."



-"La TV è la grande avvelenatrice del XX° secolo."



-"Dovunque un eroe, appaia, non muore mai del tutto."


-"L'Europa deve ricominciare ad imparare che vi sono beni, gioie superiori al possesso materiale e all'appetito."


-"La materia, sola a sé stessa, o muore o si suicida; solo l'ideale ha una valenza eterna."


-"L'ordine è per me progresso, giustizia ed armonia, e non è stagnazione, ma creazione e sforzo quotidiano."



-"Gli uomini e i popoli si guardano dall'alto in basso, l'occhio violento, le mani segnate da marchi infamanti e dai morsi che vi hanno lasciato le prede ardenti rapidamente invilite."



-"Le sapienti considerazioni degli economisti, dei teorici della politica, dei conferenzieri e dei professori, saranno vane, finché non si sarà compreso che, se esistono leggi multiple, leggi economiche ed una scienza dello Stato, vi sono altresì delle leggi dell'anima che non si calpestano invano."



-"Il grande politico prende il fango umano e, con questo fango umano, ne fa un grande paese, una grande civiltà."



-"Sempre il denaro corrompe".



-"L'acqua limpida dei cuori si è intorbidita sino agli strati più profondi. Il fiume degli uomini trasporta un diffuso odore di fango.



-"Il bisogno di prendere, di godere, di conservare, ha corrotto gli uomini, saccheggiato la vita familiare e sociale e finito per gettare, in orribili lotte al coltello, tutti i popoli gli uni contro gli altri. "


-"Pericoli enormi; possibilità enormi. Dipende tutto da noi."


-"Al gran capitalismo piace il potere debole, perché può maneggiarlo in modo migliore."


-"Nel deserto umano, in cui belano tanti montoni, siateci leoni."


-"Il mondo nuovo non si farà più che nella purificazione della disfatta."


-"L'umanità si crede libera; ma in che cosa lo è? L’ipercapitalismo domina la società. E’ una nuova forma di schiavitù, di cui le dorature non celano per nulla la crudeltà."


-"L'uomo deve ridiventare, anzitutto, essere spirituale, teso verso tutto ciò che innalza e nobilita: se no, quantunque gradevole sia la decorazione, la vita risulta solo una mangiatoia, in cui ci si sazia e l’essenziale non esiste più. "




A dieci anni di distanza, dal 30 Marzo 1994 giorno in cui Léon Degrelle abbandona l’essenza terrena, rimane indelebile l’esempio e il messaggio di colui che ha rappresentato nell’ambito dei fascismi europei uno dei maggiori e significativi protagonisti. Soldato, uomo politico, comandante, scrittore, Degrelle rappresenta uno di quei rari esempi di uomini animati da un fuoco interiore che appare inesorabile ed inesauribile.In qualsiasi contesto egli si trovi, in combattimento tra le fangose trincee al fronte dell’Est o in una sala durante un comizio politico, Léon Degrelle dimostra di sapersi trovare a proprio agio. Sempre in prima linea, con una grande attitudine al coraggio e una disposizione al sacrificio, egli non è solamente un capo politico in grado di infiammare e trascinare intere generazioni di giovani, ma un uomo che sa coniugare la politica con una profonda visione spirituale della vita.Difensore della Tradizione spirituale europea, si batte per riconquistare il senso di onore e di fedeltà, rifiutando qualsiasi compromesso con le falsità liberali e marxiste che, in nome del profitto e del materialismo più cupo, calpestano la dignità umana. Mai domo, anche nel momento del totale annichilimento di tutto ciò per cui ha lottato e creduto, egli non si arrende e continua la sua battaglia.Fino all’ultimo giorno di vita, egli non rinuncia ad appellarsi alla volontà e alla fede dei giovani, di coloro che dovrebbero ricostruire le fondamenta della nuova Europa riscattata nel segno della Tradizione e della Civiltà.