lunedì 4 ottobre 2010

BUCCINO: La Gorla del Sud

BUCCINO: La Gorla del Sud

Buccino e Gorla: due località estremamente lontane ed estremamente diverse. La prima nell'entroterra della provincia salernitana, un paesino sperduto; la seconda alla periferia di Milano. Entrambe accomunate da barbari quanto immotivati bombardamenti dei criminali Alleati che consegnarono alla morte innocenti bambini.


All'indomani dello sbarco alleato del 9 settembre, le condizioni di vita della popolazione divennero sempre più precarie. Quelle poche derrate alimentari fornite tra mille difficoltà nei mesi precedenti, erano un puro ricordo. Iniziarono a fiorire il mercato nero e fenomeni di sciacallaggio favoriti dalla libertà concessa ai detenuti per reati comuni.

Per almeno dieci giorni la situazione sul fronte dello sbarco non era tranquilla, l'afflusso delle truppe tedesche fece temere un fallimento dello sbarco se non addirittura la fuga delle truppe anglo-americane. Proprio in questo contesto fu determinante l'azione dei bombardieri che incessantemente seminarono terrore e morte tra le popolazioni inermi.

Tra i tanti episodi più o meno noti merita di essere ricordato l'eccidio perpetrato ai danni della tranquilla e pacifica popolazione di un piccolo centro dell'entroterra salernitano, Buccino, che, come tanti altri, ricorda le "prodezze" dei liberatori. Questo episodio, più dei tanti altri forse ancora sconosciuti ai più, può destare raccapriccio e stupore. Vorrei avvicinarlo a ciò che accadde a Gorla, dove tanti piccoli innocenti vennero colpiti senza un motivo e una logica. Forse tentiamo di dare una spiegazione logica per ciò che logico non è, perchè dettato dalla pura bestialità ed incapacità ad agire ad armi pari e con lealtà. E' fin troppo facile mostrare i muscoli con i più deboli e ciò accadde a Buccino come a Gorla.

I corpi di 14 ragazzi vennero lasciati in un mare di sangue su un piccolo campo di calcio, dove questi adolescenti trascorrevano le loro giornate estive in attesa della riapertura delle scuole, che per loro non arrivò mai.

L'ignobile gesto dei "liberatori" non si limitò a spezzare queste giovani vite.

Nella stessa giornata il piccolo paese venne travolto da una marea di bombe che provocarono un centinaio di morti. La presenza nella zona di una colonna corazzata di soldati tedeschi aveva "autorizzato" gli angloamericani a compiere tali eccidi, che nel corso della guerra diventeranno tristemente frequenti soprattutto sulla popolazione inerme, colpevole, forse di considerare ancora alleati i tedeschi, nel rispetto dei patti e non come i caporioni di turno pronti a saltare sul carro dei vincitori.

Ripropongo per un degno ricordo di ciò che accadde, un articolo apparso dopo 11 anni dai fatti, pubblicato su un settimanale locale e a firma di Giacomo Mele, che fu negli anni successivi valente avvocato del foro salernitano nonchè combattivo dirigente del Movimento Sociale Italiano negli anni '70.

"Sedici settembre di undici anni fa! Ogni volta che penso a questa data un'accorata tristezza si diffonde nel mio spirito e mi torna nella mente, come portato attraverso le nebbie del tempo da riflessi sanguigni, un ricordo di morte.

Il sole del sedici settembre '43 rischiarò Buccino con sprazzi di torbida luminosità che scivolavano pesantemente giù dalle non lontane creste degli Alburni in un'aria immobile ed attonita, mentre neri stuoli di corvi tracciavano l'azzurra chiarità mattinale con cupe strida, quasi in un presagio di sventura.

Lontano, verso Salerno, rombava il cannone.

I campanili delle chiese dell'industre cittadina suonarono chiamando i fedeli alla Messa.
Una dopo l'altra si aprirono le botteghe e cominciò a scandire il suo tinnante inno al lavoro l'incudine del fabbro, a stridere la sega del falegname. Schiere di donne dai volti adusti di sole attraversando le strade si dirigevano verso i feraci vigneti degradanti verso il Tanagro per la vendemmia. Quest'anno però ogni letizia era morta; non un canto si levava dalle vendemmianti.

Seguivano tacitamente il monotono zoccolio degli asini carichi di tini con gli occhi pieni d'angoscia per i loro uomini lontani, travolti nel turbine della guerra.

Ma lo strano presagio di sventure sospeso nell'aria di quel giorno di settembre, quel non so che di terribile ed al tempo stesso di arcano che rendeva obliquo il volo degli uccelli e faceva scartare bruscamente gli asini carichi di mosto per non so qual nervosismo, non trovava rispondenza nell'animo sempre lieto dei fanciulli, che la tristezza e la malinconia toccavano fuggevolmente come l'acqua che cade sulla superficie convessa di uno specchio e, lambitala appena, rapidamente si sparge.

E voi eravate lieti, miei piccoli amici, che oggi avreste vent'anni, lieti come in tutti gli altri giorni di quella strana proroga di vacanze. Ricordo: non si sapeva quando si sarebbero riaperte le scuole, ogni giorno poteva essere l'ultimo di libertà, ogni giorno potevano riaprirsi per noi le aule maleolenti di inchiostro e di stantio.

Quel sedici settembre era un altro giorno di vacanza e vi tuffaste felici nello sfolgorio del sole, che doveva essere il vostro ultimo: una macabra larva dalle mani scheletrite e lorde di sangue vi tendeva l'agguato tra i tronchi e le cataste di tavole poste a stagionare presso quella segheria, che tante volte era stata teatro dei vostri giochi sperticati.

Sapete miei piccoli amici, io la ricordo spesso quella segheria e le nostre fantastiche cariche per immaginari campi di battaglia a cavalcioni degli immobili tronchi, e le accanite cacce alle lucertole con il lungo cappio d'erbaccia, gl'inseguimenti affannosi alle coccinelle, alle farfalle, e i graffi e gli strappi procuratici per cogliere le more dalle ostili siepi di rovi: e tutte tornate dinanzi alla mia mente: Nandino, Adolfo, Tonino, Ettore, Francesco ed altri ancora; un ghigno birichino, una testa adorna di riccioli neri, un ciuffo biondo, un viso scanzonato e sorridente, un camiciotto scucito, un pantaloncino consunto dal divertentissimo sdrucciolare lungo un canale di cemento, là, dietro la cappella di San Vito.

Giocavate beati tra i i tronchi quando un rombo di motori vibrò sinistramente nell'atmosfera. Erano gli arerei dei "liberatori". Voi non temeste: Nessuno in paese ebbe paura: Solo i colombi che tubavano sugli sbrecciati cornicioni di Sant'Antonio si levarono in volo nell'azzurro e scomparvero dietro le colline. Altre volte gli aerei dei "liberatori" avevano sorvolato Buccino, che era fuori d'ogni rotta strategica, ma si erano limitati a lanciare dei volantini esortanti la popolazione alla calma ed alla letizia, poichè tra pochi giorni le truppe alleate ci avrebbero portato la fiaccola luminosa della civiltà democratica.

Le stesse cose dai microfoni di radio Londra blaterava qualche rinnegato. E voi, miei piccoli amici, li vedeste venire gli aerei liberatori ed aspettaste il turbinio dei volantini nell'aria. La squadriglia volteggiò sul paese, poi si abbassò, picchiò, sganciò il suo carico di bombe, virò e tornando a volo radente infierì selvaggiamente con le mitragliere proprio su di voi fanciulli; falciò coloro che il tritolo delle bombe aveva risparmiati.

Un nero polverone sommerse il paese dilagando anche sulle campagne circostanti. Quando si fu dileguato, portato via dalla lieve brezza settembrina, biancheggianti sinistramente al sole le rovine delle case diroccate, brillò purpureo il sangue di circa cento assassinati.

Tredici di voi, tredici compagni dei miei giochi di fanciullo, giacevano morti o morenti tra i tronchi dei quercioli e dei castagni. furono portati al camposanto tra quattro assi male inchiodate gocciolanti sangue, bagnate di lacrime disperate.

I colombi tubano ancora sui cornicioni di Sant'Antonio e da quel settembre per undici volte il vino è ribollito nei tini e per undici volte sono ingiallite e rinverdite le foglie degli alberi.

Io mi fermo talvolta a contemplare i dolci tramonti di settembre; osservo il morbido gioco delle nuvolette rosate e dei cirri di croco all'orizzonte; mi prende l'incantesimo delle vaghe fantastiche forme che i vapori assumono nel ciclo dell'opale. Siete voi che muovete in mille fogge le nubi, compagni della mia fanciullezza? E' forse vostro l'argentino cicaleccio che mi carezza leggero le orecchie sul murmure soave del vento?"




ASSALTO A MALTA "Operazione C3"

L'Italia entrò in guerra il 10 giugno 1940: sui fronti si rinunciava ad un atteggiamento chiaramente offensivo e si temporeggiava, più che altro per fare in tempo a sedersi al tavolo della pace in condizioni di privilegio; la caduta della Francia entro giugno parve suffragare questo orientamento.



L'atteggiamento verso Malta fu inquadrato nel contesto generale.

La Regia Marina, in data 18 giugno 1940, espose uno studio per l’occupazione dell'isola ricalcando in linea di massima uno studio precedente, realizzato negli anni 1935-1936 a seguito della crisi conseguente la guerra in Etiopia, il quale, dopo esaminato le presunte difese dell'isola, affermava che, stimati i difensori in 15.000 uomini, il corpo di spedizione non avrebbe dovuto comprendere meno di 40.000 uomini, da trasportarsi su un'ottantina di natanti di modesto pescaggio dei quali era da prevedersi la quasi totale perdita per incaglio.

Le zone di sbarco venivano individuate nella parte nord dell'isola, con successivo investimento della Victoria Line. Sbarchi secondari erano previsti a Gozo e Comino ed era previsto l’intervento di tutta la squadra navale e di una flotta aerea di 500 velivoli, in larga misura bombardieri.

Il nuovo piano aggiornava la situazione delle difese ed abbassava in 20.000 uomini appoggiati da carri armati il contingente da sbarcare prima sulla costa nordorientale dell'isola (baie di Mellieha e San Paolo), poi su quella occidentale, più aspra ma meno protetta mentre ribadiva l'intervento di tutta la squadra navale per appoggiare l'operazione.

Questo progetto appariva tuttavia redatto all'insegna dell'incertezza, o quanto meno della previsione a lungo termine; infatti, mentre da un lato esagerava la stima delle capacità difensive di Malta in fatto di artiglieria e carri, dall'altro affidava il trasporto del contingente da sbarco ad un centinaio di natanti a fondo piatto, di cui però mancava persino il progetto.

E’ da rilevare che, al tempo della crisi anglo-italiana seguente alla guerra con l’Etiopia del 1935, gli studi e le analisi avevano giudicato Malta obiettivo prioritario in quanto la conquista dell’isola privava gli Inglesi di un importante punto di appoggio per sommergibili, naviglio leggero e forze aeree e rendeva difficoltosa la traversata del Canale di Sicilia alle forze navali; viceversa avrebbe notevolmente rafforzato la posizione italiana nel Canale.

Sbarco da motobragozzi durante un addestramento del "San Marco"

Venne pure osservato come un’occupazione dell’isola era più possibile immediatamente dopo l’atto della dichiarazione di guerra mentre sarebbe stata sicuramente più difficoltosa ad ostilità cominciate.

Nel 1940, le valutazioni al riguardo erano un po’ differenti; testualmente:

"Date le eccezionali difficoltà dell'impresa e le forze che dovrebbero esservi dedicate, essa sarebbe giustificata soltanto se Malta rappresentasse un obiettivo decisivo. Ma avendo da tempo l'Inghilterra rinunciato a servirsene come base principale d'operazioni, la minaccia che da Malta può essere esercitata contro le nostre comunicazioni e contro le nostre basi navali è di secondaria importanza; è sufficiente che con bombardamenti aerei, con agguati di sommergibili e (quando occorre) con crociere notturne di siluranti, continui ad essere resa impossibile la permanenza a La Valletta di importanti forze navali, ad essere insidiato il movimento di quelle poche che ci sono, ad essere impedito il rifornimento dell'isola".

E’ da rilevare che la maggioranza degli studi dedicati alle vicende marittime in Mediterraneo e, di riflesso, alle operazioni in Africa Settentrionale, attribuiscono a Malta un peso strategico determinante nell'aver causato il tracollo dell'Asse. Un’attenta e approfondita analisi rileva però che l'isola rappresentò realmente una grave minaccia solo in alcuni periodi, soprattutto nell'ultimo trimestre del 1941.

Carro leggero CV35 in esercitazione di sbarco

Nel primo anno di guerra la Regia Aeronautica prima, e la Luftwaffe poi, si erano accanite contro Malta, senza tuttavia causarne la "sterilizzazione" cioè la totale interdizione alle forze inglesi.

Lo Stato Maggiore italiano dovette quindi guardare all'invasione di Malta, come all'unica possibilità di rendere incontrastato il flusso dei rifornimenti per l'Africa. Nelll'ottobre 1941 si cominciò pertanto a parlare della "Esigenza C 3 - Occupazione di Malta".

Dopo l'esperienza di Creta, conquistata nella precedente primavera con un aviosbarco, vi era chi sosteneva un simile colpo di mano anche su Malta; ma i tedeschi erano contrari tenuto conto della elevata percentuale di perdite registrata nella precedente operazione.

Era stata costituita in Italia una Forza Navale Speciale, creata nell'ottobre 1940 per un previsto sbarco in Corsica, e ad essa venne affidata la preparazione dell'operazione, parimenti si impostarono nei cantieri i mezzi da sbarco indispensabili.

Contemporaneamente si cercava di completare il quadro delle difese dell'isola per conoscerne l'esatta entità; non essendo dislocato nell'isola alcun informatore, ci si dovette sempre basare sui soli risultati della ricognizione aerea che, anche per la presenza di vari apprestamenti in caverna, risultarono solo in parte esaurienti.

L'unico tentativo di sbarco di due informatori dal mare avvenne nella notte del 17 maggio 1942 ma si risolse negativamente, con l'immediata cattura di entrambi e la condanna a morte d'uno di essi, l'irredento Carmelo Borg Pisani.

Il traghetto FF.SS. Aspromonte si appresta a sbarcare mezzi e truppe in esercitazione

In attesa che si pervenisse alla stesura definitiva dei piani, si continuò a bombardare dall’aria il più possibile le difese dell’isola e, per ottenere maggiori risultati, si trasferì in Sicilia un nuovo Corpo Aereo tedesco che, dal 20 marzo 1942, iniziò ad operare sul cielo dell’isola.

Intanto, fervevano i preparativi: sulla piana di Catania apparvero le strisce per il decollo degli alianti, ora che i tedeschi, conquistati dall'impresa (da essi denominata "Hercules"), si erano decisi ad impiegarvi i ricostituiti reparti di paracadutisti;

sulle coste della Toscana i reparti della F.N.S. si addestravano al difficile sbarco su un litorale alto e roccioso, simile a quello maltese (per questo fu necessario prevedere scale da pompieri e passerelle lunghe fino a 30 metri, abbattibili dalla prora dei mezzi come ponti levatoi); in vari cantieri navali si costruivano motozattere e motolance speciali; nel Lazio continuava l'addestramento la divisione paracadutisti Folgore.

Lancio di addestramento della divisione "Folgore"

A fine maggio 1942 il piano definitivo della C.3 poteva dirsi ultimato, in realtà erano tre piani complementari, studiati dall'Esercito, dalla Marina e dall'Aeronautica, ognuno per la parte di propria competenza.

Il Corpo di spedizione, forte di 62.000 uomini, 1600 veicoli e 700 bocche da fuoco, si divideva in:

Corpo d'Armata d'aviosbarco, sulle divisioni paracadutisti Folgore e VII germanica, e la divisione di fanteria aviotrasportata La Spezia;

XXX Corpo d'Armata, sulle divisioni di fanteria Friuli, Livorno, Superga ed il 10° Raggruppamento corazzato;

XVI Corpo d'Armata, sulle divisioni di fanteria Assietta e Napoli;

Truppe Speciali da sbarco: reggimento San Marco, battaglioni CC.NN., arditi, etc.

Le truppe, a parte quelle aviotrasportate aventi a disposizione centinaia di alianti tedeschi, sarebbero state trasportate da 16 piroscafi, 270 mezzi da sbarco vari, una cinquantina di altri natanti, tutti scortati da una trentina di siluranti.

L'appoggio diretto sarebbe stato fornito da due navi da battaglia, mentre la squadra italiana scaglionata nei porti di Napoli, Cagliari, Messina, Reggio Calabria ed Augusta, avrebbe fornito la protezione strategica; il tutto per un consumo previsto di nafta di almeno 40.000 tonn., che dovevano essere fornite dalla Germania in quanto in Italia non ve era una simile quantità disponibile. Per la parte aerea, si prevedeva l'impiego di 900 velivoli così suddivisi: 300 bombardieri e 180 caccia dislocati in Sicilia, Calabria e Puglia; 60 aerosiluranti concentrati a Pantelleria; 60 assaltatori e 300 trasporti, su vari campi.

In esercitazione, l'ondata di sbarco si appresta a toccare terra

La previsione operativa richiedeva il raduno dei mezzi da sbarco nei porti di Catania, Licata, Porto Empedocle e Siracusa; tutto questo da ultimarsi entro due giorni dall'inizio delle operazioni.

Il giorno X avrebbe visto il lancio in tre ondate successive delle due divisioni paracadutisti nella zona Dingli/Zurrieq, e l'aviosbarco in serata di alianti a Kalafrana e Forte Benghisa. Nella nottata, sarebbero sbarcati dal mare: il XXX C. di A. sulle spiagge di Qrendi; la divisione Superga sulle coste di Gozo; i reparti speciali a Marsaxlokk.

Finti sbarchi sarebbero avvenuti di Sliema e sui due versanti di Mellieha, mentre nelle zone centrali dell'isola sarebbero stati aviolanciati molti manichini per ingannare le difese. Il giorno X + 1 avrebbe visto lo sbarco di XVI C. di A. e l'avanzata delle truppe verso le coste orientali dell'isola, con successivo accerchiamento di La Valletta.

Il piano era dunque pronto e non v'era che da fissare il fatidico giorno X. Alla proposta italiana che lo voleva entro la prima metà del mese del giugno 1942, l'Alto Comando tedesco obiettò che per quell'epoca non sarebbero stati disponibili nè i paracadutisti, nè i mezzi navali, nè la nafta, mentre vi era un'altra operazione cui conveniva dare la precedenza assoluta: l'imminente controffensiva in Africa.

Sbarco tramite passerella da un motoveliero attrezato

Purtroppo ai primi di maggio, molti dei reparti aerei tedeschi dislocati in Sicilia dovettero essere trasferiti sul fronte russo, lasciando alla ben più debole Regia Aeronautica il compito di continuare il martellamento di Malta con solamente 45 bombardieri, 15 Stukas ed una settantina di caccia. L'isola, però, era nuovamente in grado di contrattaccare dal mare e dall’aria.

Quando Tobruk cadde inaspettatamente il 21 giugno, i tedeschi non esitarono più a chiedere il rinvio dell’attacco a Malta alla conclusione africana, che si riteneva imminente e vittoriosa; anche in Italia molti credettero che la partita fosse vinta e che, con l'Egitto conquistato, Malta avrebbe perso la sua funzione.

Qualche mese più tardi, in Africa, qualcosa sembrava incrinare quell'ottimismo.

Ma ormai era troppo tardi. Lo scioglimento da parte dello Stato Maggiore della "C3" era avvenuto il 27 luglio 1942.

mercoledì 22 settembre 2010

Relazione di Giuseppe Bottai per Benito Mussolini su come strutturare la pace

20 Luglio 1940

Duce,
ritengo mio dovere farTi un rapporto, desunto da mie osservazioni e deduzioni circa l'attuale momento politico e il compito particolare della cultura italiana nella preparazione della pace, desunte da miei contatti d'ufficio con il mondo universitario italiano. Forse, non avranno alcun interesse per lo svolgimento del Tuo pensiero; ma le vorrai considerare per quel poco che valgono.
Prima di entrare in argomento occorre premettere alcune osservazioni sulle tendenze politiche della nostra cultura e sul suo atteggiamento nei riguardi del Fascismo. Poiché, se è vero che in venti anni di Fascismo le nuove concezioni hanno sempre più inciso sulla vita del Paese trasformandola radicalmente, è pur vero che, per quel che riguarda la cultura, si è venuto via via approfondendo un contrasto, che ha irrigidito gli intellettuali in uno sterile conservatorismo. Di un movimento culturale fascista si è potuto parlare nei primi anni della rivoluzione, sulla base di alcuni elementi nazionalistici e idealistici, concretatisi nelle riforme del 1925 e poi sboccati nelle prime affermazioni del corporativismo, prima e dopo la Carta del Lavoro. Col declino del nazionalismo e dell'idealismo il movimento culturale fascista si è orientato poi in senso sempre più corporativistico, sviluppando il lato più propriamente rivoluzionario della nuova concezione sociale. È stato, forse, questo il periodo più fecondo della collaborazione: quella frazione della cultura italiana che vi ha partecipato è riuscita a porsi davvero su un piano rivoluzionario e a costringere la più grande frazione conservatrice a scendere sul terreno della polemica e a collaborare anch'essa indirettamente. Gli anni che vanno dal 1932 al 1935 sono da questo punto di vista i più ricchi di risultati e la nostra ideologia rivoluzionaria ha avuto allora un'influenza notevole anche all'estero, in primo luogo sul nazionalsocialismo, che, giunto al potere nel 1933, si rivolgeva al Fascismo per seguirne l'esempio.
Ma, sopravvenuta la guerra d'Etiopia, la cultura italiana ha taciuto rinunciando a ogni ulteriore collaborazione. Sul piano speculativo la critica sempre più rigorosa condotta contro l'idealismo lo ha estraniato definitivamente dal processo rivoluzionario. Sul piano sociale la fine della discussione intorno ai principi del corporativismo ha arrestato l'elaborazione della nuova scienza politica ed economica. Messa a tacere la minoranza rivoluzionaria, la vecchia cultura conservatrice si è trovata senza avversari e si è rafforzata nelle sue posizioni, mascherandosi in gran parte con un ossequio estrinseco e adulatorio nei confronti del Regime.
Siamo giunti così al settembre scorso. Quattro anni di silenzio ostile della cultura non potevano non influire sulla coscienza della Nazione. Sempre più antirivoluzionaria, la classe intellettuale si ritirava nelle posizioni più tradizionali: liberalismo e cattolicismo. D'altra parte le esigenze della rivoluzione sul piano politico, non secondate dal movimento culturale, erano costrette a far leva sulle ideologie del nazionalsocialismo, che procedeva rapidamente nel suo cammino. Questa necessità di fatto accentuava a sua volta l'ostilità della cultura e alimentava un movimento di reazione che si estendeva fino alle classi popolari. Nulla di strano quindi, se, scoppiata la guerra, pressoché tutta l'Italia si è trovata anglofila e francofila, antitedesca e antirivoluzionaria.

[Mancano nove righe illeggibili per deterioramento nell'originale].

La colpa del disorientamento ricade nella massima parte sul mondo intellettuale; e ben si spiega il disprezzo con cui la cultura è guardata da chi ha fede rivoluzionaria. Ma è pur vero che, nel campo della cultura, esistono degli elementi preparati ideologicamente e scientificamente ai compiti della Rivoluzione e che su di essi si potrebbe far leva per rinnovare dall'interno, un mondo da cui non si può prescindere. Chi vive nella scuola sa che escono ogni anno da essa tanti giovani che attendono invano di essere orientati per lavorare, con serietà scientifica, a un'opera di ricostruzione. Accompagnando con un atteggiamento di diffidenza tutto il mondo della cultura e non discriminando in esso il vecchio e il nuovo, si corre il rischio di abbandonare i giovani alla forza della tradizione e di alimentare in essi lo stesso spirito di ostilità che anima i vecchi.
Questa premessa mi è sembrata necessaria per chiarire quello che a me sembra il compito di oggi. Spiritualmente impreparati e disorientati siamo forse alla vigilia della pace, con la coscienza che vincere la pace è cosa affatto diversa dal vincere la guerra. Ora credo che si possa senz'altro affermare che vincerà la pace chi saprà meglio fare la Rivoluzione, chi saprà offrire al mondo, in termini precisi e concreti, ideologicamente e tecnicamente, il programma rivoluzionario più comprensivo, che, saldando il processo tra il vecchio e il nuovo, riesce a guadagnare la fiducia dei vincitori e dei vinti. E per far questo occorre uscire subito dal disorientamento, mettersi al lavoro e presentarci accanto alla Germania, anzi prima di tutto alla Germania, con idee chiare e di ampio respiro.
Ma, intanto, per quel che mi pare di vedere attraverso qualche sintomo, sia pure vago ed impreciso, e qualche commento ai piani di ricostruzione circolanti nella stampa tedesca, si va delineando una tendenza a chiudere il problema della pace nel problema particolaristico della pace italiana e a giuocare senza chiara consapevolezza su un concetto equivoco di autarchia. Ho timore, insomma, che si ripeta sul piano della pace quello stesso errore che, senza il Tuo energico intuito si poteva compiere sul piano della guerra: lasciare sola la Germania e lasciarci sfuggire l'iniziativa rivoluzionaria.
La Germania ha due modi di fare la pace e di realizzare la propria vittoria: uno conservatore e plutocratico, l'altro rivoluzionario e corporativo. Nel primo caso resterà la Germania imperialista di fronte a un'Europa più o meno vassalla, in una nuova sorta di equilibrio instabile e in un'irriducibile contrapposizione di ideologie e di programmi. Nel secondo, assolverà una funzione di carattere internazionale - europea e più che europea - realizzando un ordine nuovo, in una comunanza di principi ideali e di interessi, per cui il benessere della Germania sarà condizionato dal benessere degli altri Paesi.Quale dei due modi prevarrà? Il pericolo della prima soluzione è evidente:
il vincitore arricchito delle spoglie del nemico tende a diventare conservatore e a mantenere la superiorità raggiunta nei confronti del vinto. Ma non è detto che questo criterio debba trionfare ed anzi ci sono serie ragioni per pensare il contrario. Una prima è data dalla spinta rivoluzionaria, collettivistica, che ha condotto la Germania alla vittoria, sul fondamento di una struttura sociale e di una tecnica che non possono venire arrestate nel loro processo organico. Una seconda ragione può essere data - e in modo decisivo - dall'azione del resto dell'Europa, ma soprattutto dell'alleato vincitore, dell'Italia. Se, infatti, l'Italia solleciterà dalla Germania la seconda soluzione e agirà sul resto dell'Europa nel senso di questa più intima collaborazione, contribuirà ad attenuare e poi ad eliminare le tendenze tedesche conservatrici e a raggiungere la fine della politica di equilibrio.
Ora, purtroppo, il criterio che comincia a prevalere in Italia è in completa antitesi con questa seconda soluzione. Sulla base di una iniziale diffidenza verso la Germania e del terrore del suo predominio, si auspica una vittoria dell'Asse nel senso della costituzione di due sfere separate d'influenza, di due unità economiche autarchiche, di due autonomie cioè, che consentano all'Italia un futuro giuoco politico eventualmente antitedesco. Ma non si considera, così facendo, che circoscrivere la sfera d'influenza tedesca in una nuova forma di equilibrio europeo significa potenziarne il razzismo nel suo significato più materialistico e il suo imperialismo nel senso della maggiore prepotenza. Una Germania circoscritta non potrà non volere subordinare a sé gli interessi dei paesi confinanti, non volere giungere, prima o poi, al Mediterraneo attraverso Trieste, non avviarsi a una influenza sempre maggiore in questo mare, non far dilagare, in altri termini, il suo dominio a danno delle altrui sfere d'influenza. E questa necessità intrinseca al suo imperialismo - comune a ogni imperialismo, ma tanto più forte quanto più legato all'orgoglio razzista - sarà aggravata dalla piena consapevolezza che la Germania avrà della nostra diffidenza e del nostro programma. La diffidenza si paga con la diffidenza, e la diffidenza sui piano politico ed economico si traduce nel desiderio di diminuire e di boicottare. La nostra azione sarà ostacolata in tutti i sensi, la nostra industria menomata, i nostri mercati circoscritti. Date le diverse posizioni di partenza, la concorrenza sarà tutta a nostro danno e il rapporto di dipendenza non potrà essere evitato. L'ideale dell'autarchia troverà cioè in se stesso la propria negazione e ciò che si vuole evitare sarà banalmente sollecitato. Dal punto di vista sociale, poi, le reciproche autarchie non potranno non dare luogo alla costituzione di due plutocrazie e particolarmente di una plutocrazia italiana al servigio di quella più forte. Il fine rivoluzionario, frustrato sul terreno internazionale, sarà a maggior ragione negato nella politica interna.
Alla politica autarchica si contrappone il pericolo della economia complementare, quale risulterebbe da un piano tedesco già delineato. La Germania sarebbe circondata da paesi agricoli e il suo dominio si eserciterebbe non nella contrapposizione dall'esterno agli altri paesi, bensì nell'organizzazione dall'interno della nuova Europa. Ma è qui, su questo piano appunto, che l'Italia e poi il resto di Europa possono operare correggendo il concetto di complementarità a beneficio proprio e degli stessi tedeschi. Accettato il concetto di collaborazione, la forma e i risultati di essa dipendono dai collaboratori. E dipenderà proprio da noi se sapremo convincere i tedeschi che nell'interesse nostro e loro il criterio della complementarità implica lo sviluppo industriale massimo di tutta l'Europa, e se, in conseguenza, sapremo indurli a favorire il potenziamento delle nostre industrie.
Riassumendo, credo che i principi fondamentali della nostra azione politica dovrebbero essere i seguenti:I. Lealtà massima con i Tedeschi. Solo sul piano della lealtà si può costruire un programma rivoluzionario e farne propaganda internazionale. La politica di equilibrio implica la contrapposizione tra ciò che si pensa e ciò che si dice, quindi la diplomazia, quindi la classe dirigente che ha il segreto e che si contrappone alla massa, quindi il malcostume, il borghesismo, la plutocrazia.
II. Ingrandimento del campo di azione dei vincitori in un'opera di carattere internazionale, che modifichi il concetto di razza e di autarchia, trasportandolo dal terreno materialistico a quello spiritualistico.III. Preparazione di un piano rivoluzionario corporativo che, per il principio ideale e per le sue determinazioni tecniche, risponda alle più profonde esigenze spirituali di oggi e possa guadagnare la fiducia dei vincitori e dei vinti.
Ma, se questi sono i principi che debbono guidare la nostra azione, è chiaro che occorre mettersi subito al lavoro e sollecitare fin d'ora un movimento culturale che abbia la possibilità di pesare ideologicamente e politicamente. I tedeschi si preparano già da lungo tempo e noi siamo assenti: diffidiamo inutilmente di loro e ci mettiamo senza discutere nelle loro mani.
Tutto questo ho voluto dirTi perché Tu non creda che gli esponenti della cultura italiana siano senza eccezione sull'Aventino. Penso anzi che la riserva migliore sulla quale possa fare assegnamento l'Italia sia quella della cultura e che la carta principale per riprendere l'iniziativa della Rivoluzione nel suo gioco politico internazionale sia quella della ideologia. Penso ancora che, iniziato il movimento, molti giovani studiosi si rivelerebbero improvvisamente e si porrebbero con fede e con insostituibile capacità al lavoro di costruzione scientifica e politica. Ma la condizione imprescindibile per raggiungere questo risultato è che il movimento scientifico possa svolgersi con serenità e continuità, in un'atmosfera che, pure essendo politica, sia sottratta alle vicende troppo contingenti dell'azione politica più immediata. Preparare un piano corporativo di carattere internazionale significa approfondire la critica dell'equilibrio politico ed economico (liberalismo), il significato positivo e negativo dell'autarchia (organismo economico e protezionismo), il problema della moneta aurea e della sua sostituzione (economia del lavoro e disoccupazione), il problema dell'organismo economico internazionale (corporazione generale o territoriale), il criterio dell'economia complementare (nel significato tedesco e in quello che potrebbe essere il significato italiano), il rapporto tra il sistema europeo e il sistema mondiale (rivoluzione parziale o totale) il rapporto tra Fascismo e Bolscevismo (gerarchia e democrazia), il problema delle materie prime e delle eccedenze demografiche (distribuzione dei territori o circolazione delle masse), il rapporto tra economia rurale ed economia industriale (paesi poveri e paesi ricchi), le riforme istituzionali interne e internazionali (parlamentarismo, società e gerarchia delle nazioni), il significato del razzismo e delle sue conseguenze politiche (germanesimo, ebraismo, popoli latini, razze gialle), ecc. Basta accennare a questi problemi per intuire subito la complessità e la reciproca interferenza. I Tedeschi li stanno affrontando metodicamente e con una continuità di principi e di ricerche che dura ormai da parecchi anni. In Italia non solo si è fatto pochissimo, ma in generale non si sospetta, anche da chi siede sulle cattedre, che tali problemi esistono e possano essere oggetto di studio. Quelli che potrebbero fare, e che si trovano dinanzi alla incomprensione e alla ostilità misoneistica della scienza accademica, avrebbero bisogno di essere posti nelle condizioni spirituali e materiali di lavorare e discutere su un piano di superiore dignità.
docenti delle Università italiane considererebbero come loro più ambito privilegio cimentarsi, su Tue direttive, ad una ricognizione generale della dottrina fascista, raggrupparla in settori e prospettare, da un punto di vista rigorosamente teorico, i possibili orientamenti. I temi sarebbero preventivamente sottoposti al Tuo giudizio e il lavoro non dovrebbe, penso, assumere la forma esteriore di un convegno. Sarebbe compiuto a celerissime tappe, in composto silenzio, nel concluso ambito accademico, e Ti sarebbero poi presentate le conclusioni, che potrebbero rimanere riservate fino a che Tu lo giudichi opportuno; od anche essere esaminate e discusse da altri settori del Regime.
La giovane generazione dei docenti delle nostre Università, educata al costume fascista nel clima fascista, si sente anche essa una milizia ai Tuoi ordini e, come tale, chiede di servirli. Se l'esperimento, come io ritengo, sarà fecondo, potrai, successivamente, esaminare l'opportunità di porre i migliori elementi a contatto con i camerati docenti tedeschi per unificare, in feconda e leale collaborazione, taluni principi teorici che dallo studio saranno affiorati e che Tu avrai ritenuti conformi allo spirito della dottrina fascista.

Giuseppe Bottai

L'arresto del Duce - 25 Luglio 1943

Il Gran Consiglio della notte tra il 24 e il 25 luglio del 1943 segna la caduta del Regime fascista per la mano stessa del suo organo superiore. Il Duce avrebbe potuto facilmente sciogliere il Gran Consiglio e annullarne la delibera. Non lo fece. Con un atto di encomiabile correttezza, quale suo uso, si recò dal Re per presentare le dimissioni dal Capo del Governo. A quel punto l'inaspettabile svolta...

Giovanni Frignani, Raffaele Aversa e Paolo Vigneri: ecco, per la storia, i nomi dei tre ufficiali dell’Arma che affrontarono la tremenda responsabilità di arrestare l’uomo a cui per oltre vent’anni era legato il destino del popolo italiano.E con i tre suddetti ufficiali era la schiera dei loro dipendenti: sottufficiali e carabinieri che, fedeli pedine del rischiosissimo gioco, diedero tutta la loro modesta ma efficace cooperazione.

I capitani Aversa e Vigneri, rispettivamente comandanti delle compagnie della Capitale: la Tribunale l’Aversa e l’Interna il Vigneri, vengono telefonicamente convocati, verso le ore 14 del 25 luglio, nell’ufficio del tenente colonnello Frignani, comandante del gruppo da cui dipendevano.

Malgrado l’odore di crisi acuta che tutti fiutavano nell’aria dopo quanto era trapelato dalla drammatica seduta del Gran Consiglio del fascismo della notte innanzi, essi si affrettarono verso il luogo del convegno senza nulla presagire di quello che si voleva da loro. Già le chiamate del genere si facevano sempre piú frequenti in quel periodo cosí gravido ed inquietante sia per il rapido progredire dell’invasione del territorio nazionale da parte delle armate alleate sbarcate in Sicilia e sia per il bombardamento aereo di appena pochi giorni prima, del quartiere S. Lorenzo che tanto aveva terrorizzato la popolazione della Capitale. Lo confermano i rapporti agli ufficiali ed al personale in genere, che erano diventati sempre piú frequenti, per non dire quasi quotidiani.

Dal Comando Generale frattanto era stato diramato l’ordine di tenere consegnati, dalle ore 16 in poi, tutti i militari dell’Arma, in attesa d’una autorevolissima visita nelle rispettive caserme dell’Urbe.
Alla sede del Comando di Gruppo in viale Liegi, dove giunsero separatamente sia il tenente colonnello Frignani che i due capitani, si trovavano già il comandante generale dell’Arma Angelo Cerica ed il commissario di P.S. Carmelo Mazzano - sottotenente di complemento dei Carabinieri - direttore dell’autodrappello del Ministero dell’Interno.

Il generale Cerica, calmo pur nel pallore del viso che tradiva la sua intima commozione, fissa negli occhi i suoi dipendenti e dice all’incirca:

«Vi affido un compito di estrema gravità per il quale so di non fare invano appello al vostro alto senso del dovere. Oggi, fra qualche ora anzi, voi dovete arrestare Mussolini che, messo questa notte in minoranza nella seduta del Gran Consiglio del fascismo, si recherà dal sovrano e sarà sostituito nelle sue funzioni di capo del governo...»

Nessuna consegna forse apparve piú ardua di questa ai bravi ufficiali che tuttavia senza batter ciglio rispondono con due parole: «Sta bene...»

Si appartano poi in un’altra stanza dell’ufficio del Gruppo ed il tenente colonnello Frignani espone, illustra e commenta nei piú minuti particolari ai due capitani, le modalità esecutive dell’ordine ricevuto.

Poco dopo giungono in viale Liegi il questore Morazzini, addetto alla Casa Reale, in autoambulanza con a bordo, oltre al conducente, tre agenti di P.S. in abito civile, armati di mitra ed un automezzo destinato al trasporto dei militari dell’Arma.

In attinenza alle precise istruzioni concretate, i capitani Aversa e Vigneri con i due automezzi si portano al Gruppo squadroni nella vicina caserma Pastrengo e fanno approntare un plotone di 50 carabinieri che asseritamente debbono rimanere agli ordini dell’Aversa per ricercare, affrontare e catturare nuclei di paracadutisti alleati lanciati nei dintorni di Roma.
Il pretesto, giacché di pretesto si tratta, al fine di evitare ogni possibile indiscrezione che avrebbe potuto nuocere alla massima segretezza delle missioni predisposte, è facilmente accreditato dalle circostanze del recente bombardamento aereo della capitale. Nessuno pensa minimamente a vicende diverse. Soltanto si chiedono maggiori particolari d’impiego e questi vengono dati con pronta disinvoltura lavorando una volta tanto d’impostazione e di fantasia.

Il capitano Vigneri, al quale il superiore ha commesso in termini drastici la consegna di «catturarlo vivo o morto» sceglie, personalmente, tra i militari del Gruppo squadroni tre sottufficiali di particolare prestanza fisica e di pronta intelligenza che dovranno prestargli man forte, in caso di necessità, prima di ricorrere «ultima ratio» alle armi; precisamente i vicebrigadieri: Bertuzzi Domenico; Gianfriglia Romeo e Zenon Sante.I militari salgono sull’autocarro che viene chiuso accuratamente col tendone, mentre i due capitani, i tre vicebrigadieri e i tre agenti di P. S. prendono posto nell’autoambulanza che viene anch’essa chiusa ed ha gli sportelli coi vetri smerigliati. I due automezzi, senza che nessuno, ad eccezione dei due capitani, conoscesse la destinazione, si dirigevano alla volta di Villa Savoia preceduti dalla vettura del questore Morazzini, che, data la minuta conoscenza dei luoghi, si era assunto il compito di far entrare il convoglio nell’interno della residenza reale. Dopo una brevissima sosta al cancello di via Salaria vengono ancora percorsi un centinaio di metri e gli automezzi si arrestano. Il questore Morazzini, come d’intesa, picchia ai vetri dell’ambulanza per avvertire i due capitani che si è giunti nel luogo stabilito. Essi discendono ed altrettanto fanno i loro dipendenti che si raggruppano silenziosi, ma visibilmente commossi di trovarsi nel parco di una Villa.

Il questore Morazzini dà alcune sommarie indicazioni sulla topografia della località, che bastano ad orientare i due ufficiali in rapporto ai loro compiti. Il punto dove ora essi si trovano è nel lato settentrionale della villa reale, cioè nella parte opposta all’ingresso principale, dove fra breve dovrà entrare Mussolini.

È qui che si deve aspettare il momento di agire. Il questore stringe calorosamente la mano agli ufficiali con atteggiamento di favorevole auspicio e si allontana da quella parte che costituirà la scena del dramma imminente.

Lo spettacolo inusitato apparso cosí all’improvviso, non sfugge a chi sta nell’interno della villa. Qualche viso s’intravede dietro le finestre del primo piano, protette da fitte reticelle metalliche, ma per un solo attimo; poi l’ombra scompare. Un famiglio sbucato tra gli alberi del parco si arresta all’improvviso e sta quasi per tornare indietro, incerto e fors’anche un po’ smarrito.

Sotto il sole infuocato e nel silenzio inusato del meriggio gli ufficiali riuniscono il personale in un piccolo cerchio ed il capitano Vigneri rivela loro, a bassa voce, e finalmente, la grande consegna. S’impartiscono rapidamente le istruzioni di dettaglio. Poi torna il silenzio, rotto solo da un sordo acciottolio proveniente dalle non lontane cucine reali. I carabinieri, che in un primo tempo nella caserma Pastrengo avevano accolto con qualche perplessità l’annuncio fittizio del rastrellamento dei paracadutisti lanciati dagli aerei nemici, ora intuiscono di essere i modesti protagonisti d’un grande evento, bisbigliano tra loro qualche commento, ma si mostrano seriamente decisi, pronti e risoluti.

L’attesa è tuttavia snervante. I due capitani, compagni d’accademia e vecchi amici, si scambiano qualche impressione e, reciprocamente, si ripetono i dettagli dell’impresa imminente. Giunge finalmente - com’era atteso - il ten. colonnello Frignani, che veste l’abito civile. Avverte i due ufficiali che Mussolini, il quale aveva avuto in precedenza fissata l’udienza dal Sovrano, arriverà in ritardo sull’ora prevista.

Entra poi nella villa dall’ingresso secondario - a levante - per prendere gli ultimi accordi con i funzionari della Real Casa e, dopo qualche minuto, ritorna presso i suoi uomini.Si dimostra però turbato e contrariato, perché vi sarebbero delle riluttanze per l’arresto del Duce sulla soglia della villa reale. Tuttavia si ricompone subito, deciso e risoluto, esclama: «noi in ogni caso lo arrestiamo ugualmente».

Egli sente indubbiamente la passione dell’ora che volge: egli intuisce la necessità di non dare tempo al capo del governo spodestato di riaversi dal duro colpo e di scatenare o di tentare di scatenare un movimento di reazione, le cui conseguenze potrebbero riuscire fatali per il nostro Paese. Ma, da vero soldato, si rende conto che è indispensabile saper frenare i generosi impulsi del cuore ed agire con tempestiva ponderatezza. Rientra di nuovo nella villa e ne esce poco dopo con la notizia che Mussolini si trova ancora a colloquio col sovrano e che l’arresto si farà. Ma non c’è tempo da perdere ormai. Il questore Marazzini intanto, col pretesto di una urgente chiamata telefonica, ha attirato in un punto lontano dalla villa l’autista del Duce, che cosí è stato immobilizzato.

I cinquanta carabinieri vengono lasciati sul lato settentrionale dell’edificio, pronti ad accorrere al primo cenno, mentre i due capitani, i tre vicebrigadieri ed i tre agenti di P. S. armati di mitra si portano sul lato orientale. Si fa avanzare l’autoambulanza fino a pochi metri dall’ingresso dal quale uscirà Mussolini, ma in modo da non essere notata.Proprio nell’angolo sta fermo un famiglio fidato con la consegna di allontanarsi allorché il capo del governo comparirà in cima alle scale. È questo il segnale convenuto per agire. Sullo stesso lato, a ridosso della siepe, è in sosta, priva dell’autista, la macchina di Mussolini. A pochi metri di distanza il capitano Vigneri dispone i tre agenti di P. S. con le armi pronte e con l’ordine d’intervenire soltanto in caso di necessità e sempre al primo cenno. Poi, insieme al collega Aversa, si colloca di fronte, presso il muro della villa, con a tergo i tre sottufficiali.Una ventina di metri piú indietro, sostano il ten. colonnello Frignani ed il questore Morazzini, i quali si avvicineranno solo quando Mussolini sarà salito sull’autoambulanza.

Ad un certo momento il famiglio si allontana. È l’ora. Il piccolo gruppo, formato dai due capitani e dai tre vicebrigadieri, avanza e - quasi contemporaneamente - si scorge il duce - mentre discende gli ultimi gradini della scalinata insieme al suo segretario particolare De Cesare. Vestono entrambi l’abito scuro: Mussolini con un completo blu ed un cappello floscio. Egli deve aver notato all’ultimo istante l’insolito apparato, tanto che trasalisce visibilmente.Il capitano Vigneri gli va incontro e, stando sull’attenti, dice: «Duce in nome di S.M. il Re vi preghiamo di seguirci per sottrarvi ad eventuali violenze da parte della folla».Mussolini allarga le mani nervosamente serrate su una piccola agenda e con un tono stanco, quasi implorante, risponde: «Ma non ce n’è bisogno!»

Il suo aspetto è quello d’un uomo moralmente finito, quasi distrutto: ha il colorito del malato e sembra persino piú piccolo di statura.

«Duce, - riprende il capitano Vigneri, - io ho un ordine da eseguire». «Allora seguitemi», risponde Mussolini e fa per dirigersi verso la sua macchina. Ma l’ufficiale gli si para dinnanzi: «No, Duce, - gli dice, - bisogna venire con la mia macchina».

L’ex capo del governo non ribatte altro e si avvia verso l’autoambulanza, col capitano Vigneri alla sua sinistra; segue De Cesare, con a fianco il capitano Aversa.Dinnanzi all’autoambulanza Mussolini ha un attimo di esitazione, ma Vigneri lo prende per il gomito sinistro e lo aiuta a salire. Siede sul sedile di destra.Sono esattamente le ore 17.20.

Dopo, sale De Cesare e si mette a sedere di fronte al suo capo. Quando anche i sottufficiali e gli agenti si accingono a montare, il Duce protesta: «Anche gli agenti?! No!!»

Vigneri allarga le braccia come per fargli capire che non c’è nulla da fare e, rivolgendosi deciso ai suoi uomini, ordina: «Su ragazzi, presto!!»

Anche i due capitani salgono. Nell’autoambulanza ora si è in dieci e si sta stretti. Il questore Morazzini si avvicina e, prima di chiudere la porta dall’esterno, avverte che si uscirà da un ingresso secondario e che un famiglio accompagnerà l’automezzo sino all’uscita.

La macchina si muove, mentre l’autocarro con il plotone dei cinquanta carabinieri rimane fermo. Ormai non c’è piú bisogno di loro. Anche la missione del ten. colonnello Frignani e dei capitani Vigneri e Aversa è finita.

25 Luglio 1943 - La caduta del Regime

L'ultima e burrascosa seduta del Gran Consiglio del Fascismo



Tra le ore 17 del 24 e le 3 del mattino del 25 luglio 1943, in una tempestosa riunione durata dieci ore, il Gran consiglio del fascismo (che non si riuniva dal 7 dicembre 1939, quando era stata approvata la "non belligeranza" dell'Italia), mise in minoranza Mussolini. Oltre al duce (che presiedeva il Consiglio) erano presenti ventisette membri.

L'ordine del giorno Grandi (redatto dallo stesso Grandi, da Ciano e da Bottai), che prevedeva l'allontanamento del Duce del fascismo, prevalse con 19 si contro 7 no e un'astensione.

Prima delle votazioni, parlò Mussolini.

"Quest'ordine del giorno - disse - pone problemi molto gravi di dignità personale. Se il re accetta la restituzione della delega dei poteri militari, questo significa che io debbo essere decapitato. E' meglio parlarci chiaro. Io ho ormai sessant'anni e so cosa vogliono dire queste cose. Se poi domani il re a cui portassi questo vostro ordine del giorno dovesse rinnovare la sua fiducia in me, quale sarebbe la posizione di voi signori di fronte al re, di fronte al paese, di fronte al partito, di fronte a me personalmente?"

Nonostante, le inquietanti domande di Mussolini, il Consiglio gli votò contro. Alle 18 dello stesso 25 luglio il re Vittorio Emanuele III farà arrestare Mussolini (sostituito con il generale Badoglio) e l'11 gennaio 1944 furono fucilati a Verona i "traditori del Regime", cioè i firmatari non contumaci dell'ordine del giorno Grandi. Facciamo ora seguire i tre ordini del giorno che, in quella drammatica notte, furono presentati, discussi e votati: quello di Grandi. quello di Farinacci (che ebbe il voto del solo proponente) e quello di Scorza (concordato preventivamente con Mussolini).

1. Ordine del giorno Grandi - "Il Gran Consiglio, riunendosi in questi giorni di supremo cimento, volge innanzitutto il suo pensiero agli eroici combattenti di ogni armata che, a fianco a fianco con la fiera gente di Sicilia, in cui più alta risplende l'univoca fede del popolo italiano, rinnovano le nobili tradizioni di strenuo valore e di indomito spirito di sacrificio delle nostre gloriose forze armate.

Esaminata la situazione interna ed internazionale e la condotta politica e militare della guerra, proclama: il dovere per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l'unità, l'indipendenza, la libertà della patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l'avenire del popolo italiano; afferma: la necessità dell'unione morale e materiale di tutti gli Italiani in quest'ora grave e decisiva per i destini della patria;

dichiara: che a tale scopo è necessario l'immediato ripristino di tutte le funioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al governo, al Parlamento, alle corporazioni, i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali;

invita: il capo del governo a pregare la Maestà del Re, verso la quale si rivolge fedelmente e fiducioso il cuore di tutta la nazione, affinchè egli voglia, per l'onore e la salvezza della patria, assumere con l'effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell'aria, secondo l'articolo 5 dello Statuto del Regno, quelle supreme iniziative di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono e che sono sempre state, in tutta la nostra storia nazionale, il retaggio glorioso della nostra augusta dinastia di Savoia."

2. Ordine del giorno Farinacci - "Il Gran Consiglio del fascismo, veduta la situazione interna ed internazionale e la condotta politico-militare della guerra sui fronti dell'Asse, rivolge il suo fiero e riconoscente saluto alle eroiche forze armate italiane e a quelle alleate, unite nello sforzo e nel sacrificio per la difesa della civiltà europea, alle genti della Sicilia invasa, oggi più che mai vicina al cuore delle altre genti, alle masse lavoratrici dell'industria e dell'agricoltura che potenziano col lavoro la patria in armi, alle camicie nere ed ai fascisti di tutta Italia che si serrano nei ranghi con la immutata fedeltà al regime;

afferma: il dovere sacro per tutti gli Italiani di difendere fino all'estremo il sacro suolo della patria, rimanendo fermi nell'osservanza delle alleanze concluse; dichiara che a tale scopo è necessario e urgente il ripristino generale di tutte le funzioni statali, attribuendo al Re, al Gran Consiglio, al governo, al Parlamento, al partito, alle corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dal nostro statuto e dalla nostra legislazione;

invita il capo del governo a chiedere alla Maestà del Re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la nazione, perchè voglia assumere l'effettivo comando di tutte le forze armate e dimostrare così al mondo intero che tutto il popolo combatte serrato ai suoi ordini, per la salvezza e la dignità d'Italia".

3. Ordine del giorno Scorza - "Il Gran consiglio del fascismo, convocato mentre il nemico - imbaldanzito dai successi e reso tracotante dalle sue ricchezze - calpesta la terra di Sicilia e dal cielo e dal mare minaccia la penisola; afferma solennemente la vitale e incontroversibile necessità della resistenza a ogni costo. Certo che tutti gli istituti ed i cittadini - nella piena e consapevole responsabilità dell'ora - sapranno compiere il loro dovere sino all'estremo sacrificio, chiama a raccolta le forze spirituali e materiali della nazione per la difesa dell'unità, dell'indipendenza e della libertà della patria.

Il Gran consiglio del fascismo, in piedi:

saluta le città straziate dalla furia nemica e le loro popolazioni che in Roma - madre del cattolicesimo, culla e depositaria delle più alte civiltà - trovano la espressione più nobile della loro fermezza e della loro disciplina; rivolge il pensiero con la fiera commozione alla memoria dei caduti e alle loro famiglie che trasformano il dolore in volontà di resistenza e di combattimento;

saluta nella Maestà del Re e nella dinastia sabauda il simbolo e la forza della continuità della nazione e l'espressione della virtù di tutte le forze armate che - insieme con i valorosi soldati germanici - difendono la patria in terra, in mare, in cielo;

si unisce reverente al cordoglio del pontefice per la distruzione di tanti insigni monumenti dedicati da secoli al culto della religione e dell'arte.

Il Gran consiglio del fascismo è convinto che la nuova situazione creata dagli eventi bellici debba essere affrontata con metodi e mezzi nuovi. Proclama pertanto urgente la necessità di attuare quelle riforme ed innovazioni nel governo, nel Comando supremo, nella vita interna del paese, le quali - nella piena funzionalità degli organi costituzionali del regime - possano rendere vittorioso lo sforzo unitario del popolo italiano".

lunedì 26 luglio 2010

COSTANZO CIANO (1876-1939)

I Personaggi del Fascismo


COSTANZO CIANO (1876-1939)

Eroe della "Beffa di Buccari", inventore dei mezzi di comunicazione di massa italiani


Nato a Livorno il 30 agosto 1876, Costanzo Ciano entra nell'Accademia Navale della sua città nel 1891 ed è nominato Guardiamarina nel 1896, Sottotenente di Vascello nel 1898, Tenente di Vascello nel 1901.

Esperto di armi subacquee, combatte in Libia e nella Grande guerra, prendendo parte soprattutto alle azioni dei MAS (di cui è Ispettore dal luglio 1917 al maggio 1919), ed è protagonista della celebre beffa di Buccari con D'Annunzio (10-11 febbraio 1918), divenendo Medaglia d'oro al valor militare e pluridecorato.

Nell'agosto del 1915 è Capitano di Corvetta, nel giugno 1917 è promosso Capitano di Fregata.

Promosso nell'agosto del 1918 Capitano di Vascello per meriti di guerra, nel maggio del 1919 viene collocato, a sua domanda, tra le forze ausiliarie, per passare all'impiego civile, come Direttore di una compagnia di navigazione di proprietà di Giovanni Agnelli.

Dal 1921, eletto Deputato per il Blocco nazionale, si dedica completamente alla politica, aderendo al Fascismo e divenendone il massimo rappresentante nella città natale.

Sottosegretario alla Marina e Commissario alla Marina mercantile nel primo Ministero Mussolini (19 novembre 1922-5 febbraio 1924),

cerca di ammodernare la flotta con premi di navigazione e di demolizione e introduce il nuovo Regolamento sulla sicurezza della vita umana in mare.

Nel febbraio 1924 diventa Ministro delle Poste e nel maggio 1924 diventa Ministro delle Comunicazioni, nuovo, grande ed unico dicastero comprendente la Marina Mercantile, le Poste, i Telegrafi e le Ferrovie.

Personalità di spicco del Regime, riceve numerosi onori e riconoscimenti: nel luglio 1923 è Contrammiraglio di Divisione, poi Ammiraglio di Divisione;

nel 1928 viene insignito dal Re dei titoli di Conte di Cortellazzo e di Buccari; il 24 settembre 1930 è chiamato a far parte del Gran Consiglio del Fascismo;

nel 1931 è Ammiraglio di Squadra e nel 1936 Ammiraglio d’Armata. Già nel 1926 Mussolini lo aveva indicato al Re e al Gran Consiglio del Fascismo come suo eventuale successore.

Per oltre un decennio gestisce settori cruciali e sovrintende alla privatizzazione della telefonia urbana e alla riorganizzazione dell'amministrazione ferroviaria,

contribuendo in modo decisivo al grande sviluppo strutturale del Regno di quegli anni.

Amico del Marchese Guglielmo Marconi, avvia una pionieristica rete di radiocomunicazioni direttamente gestita dallo Stato, promuove lo sviluppo del dopolavoro ferroviario e, nel 1928, istituisce l'Ente Italiano Audizioni Radiofoniche (EIAR), la futura RAI.

Dal 1934 è presidente della Camera dei Deputati e, per pochi mesi, della nuova Camera dei Fasci e delle Corporazioni (1938).

Morì a Ponte a Moriano in Provincia di Lucca il 26 giugno 1939.

S E Costanzo Ciano ministro per le comunicazioni inaugura la ferrovia elettrica del Gargano Inaugurazione


(1876-1939)

GUIDO BUFFARINI GUIDI (1895-1945)

I personaggi del Fascismo


GUIDO BUFFARINI GUIDI (1895-1945)

Il grande esponente del fascismo pisano


Guido Buffarini Guidi nacque a Pisa nel 1895; si diede presto agli studi legali, divenendo Avvocato.

Fiero interventista allo scoppio della Grande Guerra, partì volontario in un reggimento d’artiglieria, trascorrendo ben 4 anni al fronte, divenendo Capitano nel 1917 e guadagnandosi tre Croci al merito. Rimane in servizio attivo fino al 1923, ottenendo il permesso di completare gli studi e laureandosi nel 1920, anno in cui aderisce ai Fasci di Combattimento divenendo ben presto l’organizzatore dello Squadrismo pisano.

E’ alla Marcia su Roma con le sue Squadre; divenuto Sindaco e poi Podestà della sua città (1923), diviene Deputato (1924), quindi Segretario Federale del Fascio Pisano, non trascurando però l’avvocatura.

Convinto irredentista, è anche Presidente del Comitato pisano di azione dalmata, nonché Console Onorario della MVSN.

Stimato per la moderazione e le capacità amministrative, diviene per lunghissimo tempo Sottosegretario agli Interni (maggio 1933-febbraio 1943), nel cui ruolo eccede sovente nei piccoli intrighi della “politica di palazzo”.

A lui si deve comunque l’opera di riorganizzazione delle Prefetture e di ridimensionamento dell’impostazione burocratica del Partito e dei Fasci locali. In questo periodo diviene amico di Ciano. Contrario alle leggi razziali, appronta le giuste indicazioni perché siano mitigate.

Membro del Gran Consiglio del Fascismo (1943), vota contro l’ordine del giorno Grandi del 25 luglio.

Aderisce alla RSI, di cui diviene Ministro degli Interni, sostituito da Zerbino il 12 febbraio 1945. Arrestato dai partigiani il 26 aprile 1945, viene assassinato in carcere a San Vittore, a Milano, il 10 luglio, dopo un vano tentativo di avvelenamento.

(1895-1945)

mercoledì 2 giugno 2010

Festa della Repubblica Italiana

2 Giugno 2010,
Festa della Repubblica Italiana


martedì 1 giugno 2010

FERNANDO MEZZASOMA (1907-1945)

I Personaggi del Fascismo



FERNANDO MEZZASOMA (1907-1945)

Il prode Fascista della seconda generazione

Fernando Mezzasoma nasce a Roma nel 1907, ma si trasferisce presto a Perugia. Laureato in scienze economico-commerciali, diviene giornalista e si iscrive al PNF il 30 giugno 1931.

Diviene così Segretario dei GUF perugini e Membro del Direttorio Federale di Perugia (1932-35).

Promosso alla carica di Vicesegretario Generale dei GUF (1935-37), entra come membro di diritto nel Direttorio Nazionale del PNF nel gennaio 1937, fino a quando il 23 febbraio 1939 viene nominato Vicesegretario del partito, carica che ricopre per oltre tre anni.

Nel marzo 1942 è vicepresidente della Corporazione carta e stampa e direttore generale della stampa italiana presso il Ministero della Cultura Popolare, incarichi che detiene fino al 25 luglio 1943, impegnandosi attivamente anche nell'organizzare i Littoriali della cultura e dell'arte e nel diffondere gli ideali del Fascismo tra la gioventù.

Apprezzato giornalista e collaboratore di vari giornali ufficiali (tra cui “Dottrina fascista” e “Roma Fascista”) in cui si firma con lo pseudonimo di Diogene, è Direttore dell’”Assalto” di Perugia (1934-35) e condirettore di “Libro e Moschetto”, l'organo dei GUF.

Nel 1937 pubblica “Essenza dei GUF”, distribuito capillarmente a tutte le organizzazioni giovanili inquadrate dal Regime.

Dopo l'8 settembre 1943, aderisce alla RSI, divenendone Ministro della Cultura Popolare, scontrandosi però con Junio Valerio Borghese, circa i compiti del suo foglio “Orizzonte”.

Fedele a Mussolini fino all'ultimo, decide di seguirlo nella fuga verso la Svizzera e di condividerne la sorte, assieme a Pavolini, Zerbino e Marcello Petacci.


(1907-1945)

giovedì 20 maggio 2010

ALFREDO ROCCO (1875-1935)

I Personaggi del Fascismo



ALFREDO ROCCO (1875-1935)

Il Giurista del Regime Fascista

Alfredo Rocco nacque a Napoli il 9 settembre 1875. Intrapresa la carriera Accademica, è libero docente di diritto commerciale nell'Università di Parma nel 1899, prima straordinario e poi ordinario della stessa materia nell'Università di Urbino dal 1899 al 1902 e successivamente nell'Università di Macerata sino al 1905.

Nel 1907 diviene ordinario di procedura civile nell'Università di Parma e l'anno successivo in quella di Palermo, mentre dal 1910 al 1925 è ordinario di diritto commerciale nell'Università di Padova ed in seguito ordinario di legislazione economica e del lavoro nell'Università di Roma, di cui diventa Rettore dal 1932 al 1935.

La prima manifestazione significativa del suo pensiero politico si ha a Bologna nel 1907 quando presenta al terzo congresso nazionale del Partito Radicale una mozione per trasformare quel movimento in un’organizzazione politica delle classi medie.

Nel 1913 in un articolo su “La Tribuna” auspica che il Partito Liberale si rinnovi in senso più marcatamente nazionale e nel dicembre dello stesso anno diventa presidente del gruppo Nazionalista di Padova.

Nel primo dopoguerra guarda con interesse al nuovo fenomeno Fascista ed è uno dei primi Nazionalisti a cogliere nel movimento delle Camicie Nere la possibilità di restaurare e riorganizzare lo Stato in senso nazionale.

Nel 1921 è eletto Deputato a Roma nel Blocco nazionale e dopo la Marcia su Roma confluisce con i Nazionalisti nel PNF (1923); nel Governo Mussolini è nominato prima Sottosegretario al Ministero del Tesoro e, dopo il 31 dicembre 1922, al Ministero delle Finanze, sino al marzo 1929. Dal marzo al settembre dello stesso anno è Sottosegretario per l'assistenza militare e le pensioni di guerra.

Riconfermato deputato alla XXVII legislatura è eletto, il 27 maggio 1924, Presidente della Camera dei Deputati e resta in carica sino al 5 gennaio 1925, quando diventa Ministro di Grazia e Giustizia.

Da questo momento sino al 1932, quando lascia il Dicastero, la sua attività si concretizza in una serie di leggi e di provvedimenti che segnano il rinnovamento della legislazione giuridica del Regno ed il compimento del corpus juris Fascista:

dalle leggi fondamentali sulle prerogative del Capo del Governo alla facoltà per l'esecutivo di emanare norme giuridiche, dalla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro alla riforma generale dei Codici, tra cui l’emanazione dei celebri Codici Penale e di Procedura Penale che portano il suo nome (1930).

Nel 1934 è nominato Senatore del Regno. Muore a Roma il 28 agosto 1935.

(1875-1935)




CARLO SCORZA (1897-1988)

I Personaggi del Fascismo


CARLO SCORZA (1897-1988)

Nato a Paola, nel Cosentino, il 15 giugno 1897, si trasferì a Lucca ancora adolescente, diplomandosi in ragioneria. Partecipa come volontario alla Grande Guerra, con il grado di Tenente nei Bersaglieri, guadagnandosi due medaglie di bronzo al valore militare.
Si iscrive ai Fasci di Combattimento nel dicembre 1920. Giornalista dal 1920, è direttore de “L’Intrepido”, fondatore del “Popolo di Toscana” e Capo dello Squadrismo Lucchese durante la Rivoluzione Fascista. Dal 1931 è direttore di “Gioventù Fascista”.

Durante il Regime ricopre le cariche di Segretario Federale di Lucca (1921-29) e di Commissario Straordinario di Forlì (1928-29). Deputato dal 1924 al 1939 e membro del Direttorio Nazionale del PNF (1929-31), nel dicembre 1932 viene ufficialmente deplorato per aver scatenato repressioni contro l’associazionismo Cattolico.

Volontario nel conflitto etiopico e nella guerra civile spagnola, durante gli anni della Segreteria di Starace rimane in posizione notoriamente polemica contro la burocratizzazione del Partito e dello Stato.

Consigliere Nazionale (1939-43), membro della Corporazione della chimica (1938-41) e della Corporazione della siderurgia e metallurgia (1941-42), presidente dell'Ente della stampa (1940-43).

Vice-segretario del PNF dal dicembre 1942, il 17 aprile 1943 diventa Segretario Generale del Partito, carica che mantiene fino al 25 luglio 1943, impegnandosi nella lotta contro il dilagante disfattismo.

Dopo l'arresto di Mussolini, presenta atto di sottomissione a Badoglio, riuscendo così a ingraziarselo, ma con la nascita della RSI viene arrestato dai repubblichini e incarcerato a Verona con l'accusa di tradimento (28 ottobre 1943). Processato a Parma nell'aprile 1944 viene assolto e confinato a Cortina d'Ampezzo, donde si appella più volte, inutilmente, a Mussolini.

Arrestato dopo la guerra dai partigiani a Gallarate (23 agosto 1945), riesce a evadere, riparando in Argentina, dove partecipa alla politica locale divenendo un acceso peronista.

Rientra in italia soltanto alla fine degli anni ‘70, morendo a Castagno d’Andrea il 23 Dicembre 1988.

(1897-1988)



lunedì 17 maggio 2010

RENATO RICCI (1896-1956)

I Personaggi del Fascismo

RENATO RICCI (1896-1956)

"Il grande organizzatore dei Balilla, il costruttore, l'Ardito carrarese"


Renato Ricci nacque a Carrara il 1° giugno 1896 da una famiglia di cavatori, nipote di un vecchio garibaldino. Dopo il diploma di Ragioniere, s’impegnò per la causa irredentista e si arruolò volontario nei Bersaglieri nel 1915, partecipando alla campagna per la redenzione di Trieste, meritandosi due medaglie al valore ed una croce al merito. Divenuto Ufficiale Comandante di una pattuglia di Arditi, segue D’Annunzio nell’impresa fiumana del 1919, muovendo dal Monte Nevoso. Coi Legionari occupa tutto il Carnaro e Zara; consegue successivamente il brevetto di pilota; in questo periodo conosce e frequenta anche Marinetti.Tornò quindi a Carrara dove trasformò l’Arditismo in Squadrismo e fondò il Fascio locale, organizzandosi per la Marcia su Roma (1922). Divenuto Alto Commissario del Partito, si occupa della sua città, ristrutturando l’ospedale, costruendo le case popolari, la nuova Accademia delle Belle Arti, promuovendo l’industria marmifera.

Nel 1924 è eletto Deputato e fonda il Consorzio Marmi. Nel 1926 è Sottosegretario all’Educazione Nazionale, con il compito di riorganizzare la gioventù specialmente dal punto di vista morale e fisico. Si reca pertanto presso il celebre Baden-Powell in Inghilterra per studiare lo scoutismo, traendone importanti consigli. Di qui in America per studiare il sistema dei colleges. Quindi in Germania, dove conosce i movimenti artistico-architettonici della Bauhaus e di Gropious. Anche sulla scorta di queste esperienze fonda l’Opera Nazionale Balilla (ONB), alla cui Presidenza sarà dal 1926 al 1937.

Realizza così 900 Case del Balilla e della Piccola Italiana, tutte con palestre, piscine, biblioteche, sale di riunione, giardini. Realizza inoltre ben 12 Collegi e una nave scuola (la Palinuro).

Ma la sua opera più grandiosa è lo Stadio dei Marmi al Foro Mussolini (1930-34), opera architettonica straordinaria, che fu costruita con marmo di Carrara (senza toglierne un briciolo per le altre costruzioni ed utilizzando scarti di pezzi più grossi), avvalendosi di eccellenti giovani scultori portati così alla ribalta.

Circa l’attività dell’ONB, da segnalare le importanti crociere all’estero organizzate da Ricci per i giovani, nonché tutte quelle attività che in breve portarono salute fisica e morale alla gioventù Italiana.

Nel 1937 divenne Sottosegretario alle Corporazioni e quindi Ministro (1939-1943). In tale veste organizzò il difficile momento autarchico dell’industria Nazionale.Nel 1940 decide di partire volontario per la guerra in Albania, tornandone pluridecorato. Esonerato dall’incarico di Ministro nel febbraio 1943, si ritira in campagna.

Dopo l’8 settembre 1943 decide di ribellarsi a Badoglio ed eludendo la sorveglianza fugge in Germania dove, con i tedeschi, organizza la liberazione del Duce e contribuisce alla nascita della RSI.

Diviene così Comandante della nuova Guardia Nazionale Repubblicana (GNR). In tale veste entra in disaccordo con Graziani, essendo fortemente contrario alla coscrizione, volendo mantenere lo spirito volontaristico originario della Milizia. Alla metà del 1944 Ricci si dimette dall’incarico, mantenendo la Presidenza di una risorta ONB.
Col 25 aprile del 1945 si dà alla latitanza, per tornare allo scoperto solo con l’amnistia.Nel secondo dopoguerra si occupò di industria e di affari con la Germania. Divenne altresì, con Graziani Presidente e assieme a Borghese, Vicepresidente dell’Associazione Combattenti e Reduci della RSI . Morì a Roma il 22 gennaio 1956.

(1896-1956)

GIACOMO ACERBO (1888-1969)

I Personaggi del Fascismo



GIACOMO ACERBO (1888-1969)

"Il Combattente, il Tecnico, il fine politico"


Giacomo Acerbo nasce a Loreto Aprutino, nel pescarese, il 25 luglio 1888, da antica e Nobile famiglia locale. Laureatosi in Scienze Agrarie a Pisa nel 1912, si affilia alla massoneria Interventista; si arruola volontario nella Grande Guerra.Decorato con tre Medaglie d’argento al valor militare e congedato col grado di Capitano, si avvia alla carriera universitaria come assistente di discipline economiche. Contemporaneamente promuove l'Associazione dei Combattenti di Teramo e Chieti che, dopo le elezioni del 1919, si stacca dalla Associazione nazionale e costituisce il Fascio di combattimento provinciale.

Eletto nel 1921 con il Blocco nazionale, si pone come moderatore degli eccessi squadristici locali. A livello nazionale contribuisce al patto di pacificazione con i socialisti e a novembre viene eletto nel comitato centrale del PNF. Durante la Marcia su Roma tiene i contatti con il Quirinale e con Montecitorio, controllando lo svolgersi inquadrato della Rivoluzione. Accompagna poi Mussolini a ricevere dal Re l'incarico ministeriale e lo assiste nella formazione del Governo, assumendo l'incarico di Sottosegretario alla Presidenza.

Lega il suo nome alla riforma elettorale maggioritaria, appunto la legge Acerbo, votata nel novembre 1923. Nuovamente deputato nel 1924 e insignito del titolo di Barone dell’Aterno, è coinvolto marginalmente nelle inchieste sul delitto Matteotti e lascia il Sottosegretariato alla Presidenza del Governo (1924).

Nel 1924 istituisce la Coppa Acerbo in memoria del fratello Tito Acerbo, Medaglia d’oro al valor militare. Nel gennaio 1926 viene eletto Vicepresidente della Camera, carica che detiene sino al 1929, quando diventa Ministro dell'Agricoltura e delle Foreste e si dedica ai progetti di bonifica integrale. Contribuisce con Gabriele d'Annunzio all’istituzione della Provincia di Pescara nel gennaio 1927. Nel 1934 è Preside della Facoltà di economia e commercio di Roma. Dal 1935 al 1943 è Presidente dell'Istituto internazionale di agricoltura. Membro del Gran Consiglio del Fascismo, nel 1938 è relatore sul disegno di legge per la trasformazione della Camera dei Deputati in Camera dei Fasci e delle Corporazioni.

Durante la seconda guerra mondiale è Colonnello di Stato Maggiore sui fronti alpino e balcanico. Nel febbraio 1943 è nominato Ministro delle Finanze e del Tesoro.Il 25 luglio vota a favore dell'ordine del giorno Grandi e dopo l'8 settembre ripara in Abruzzo, dove si nasconde, colpito dalla condanna a morte emessa dal Tribunale di Verona della RSI. Catturato dai partigiani, è condannato anche qui alla pena di morte, poi commutata in 48 anni di reclusione. Annullata la sentenza dalla Cassazione, viene riabilitato e nel 1951 è riammesso all'insegnamento universitario.

Successivamente nominato all’unanimità dal Senato Accademico dell'Università La Sapienza di Roma Professore Emerito, nel 1962 viene insignito dal Presidente della Repubblica Antonio Segni della Medaglia d’oro per i benemeriti della scuola, della cultura e dell'arte. Nel 1953 e nel 1958 si candida alle elezioni con i Monarchici del PDIUM, ma senza successo.

Appassionato collezionista di antiche ceramiche di Castelli, nel 1957 apre ai visitatori di tutto il mondo le porte della Galleria delle antiche ceramiche abruzzesi. Morì a Roma il 9 gennaio 1969.

(1888-1969)

ETTORE TOLOMEI (1865-1952)

I Personaggi del Fascismo


ETTORE TOLOMEI (1865-1952)


"Il Redentore dell'Alto Adige"

Il Conte Ettore Tolomei nacque a Rovereto, in Provincia di Trento, allora austriaco, il 16 agosto 1865 dal Conte Tolomeo e la Contessa Olimpia. Giovinotto, si appassiona a Garibaldi e diventa irredentista. Laureatosi, diventa giornalista e Professore, cominciando a scrivere su giornali e riviste articoli contro l'Austria che destano i sospetti delle autorità; perciò si allontana spesso dal Trentino e cerca di ottenere consensi per le sue idee a Roma.

Già allora ebbe un’idea chiara e precisa: il confine d'Italia dev'essere spostato al Brennero. Nel 1904, compiendo un'escursione in Valle Aurina sale il Glockenkarkopf, alto 2912 metri, sullo spartiacque fra l’Alto Adige ed il Salisburghese, scolpisce nella roccia la parola “Italia” e ribattezza il monte con il nome con cui è noto anche oggi: Vetta d'Italia. Per Tolomei la Vetta d'Italia dovrà diventare il punto più a nord della penisola. Il fine politico di Tolomei sarà, da questo momento in avanti, quello di impegnarsi con tutte le forze, senza risparmio di mezzi, per far giungere il confine d'Italia allo spartiacque alpino.

Nel 1906, anno in cui si trasferisce a Gleno di Montagna nel bolzanino, Tolomei fonda a Trento il suo “Archivio per l'Alto Adige con Ampezzo e Livinallongo”, un periodico su cui egli pubblica sempre nuovi articoli con i quali cerca di rivendicare il diritto dell'Italia sull’allora Sudtirolo. Sull'Archivio, Tolomei sviluppa la predetta teoria dello spartiacque, secondo la quale il confine fra l'Italia e l'Austria deve essere spostato al Brennero, perché su quel passo c'è lo spartiacque fra il Mediterraneo ed il Mar Nero, confine naturale voluto da Dio.

Sull'Archivio Tolomei comincia ad italianizzare la toponomastica alloglotta, trasformandola nella futura toponomastica altoatesina, coniando oltre 8.000 toponimi. Sull'Archivio egli sollecita in seguito l’italianizzazione dei cognomi germanizzati.

Con la Grande Guerra è il momento di agire e Tolomei si reca alla conferenza di pace di Saint Germain dell’aprile 1919, ottenendo il ruolo di Consigliere del Capo-delegazione Vittorio Emanuele Orlando per l’Alto Adige. Riesce così brillantemente ad ottenere: che in Alto Adige non si tenga alcun plebiscito; che il Sudtirolo venga annesso al Regno col nuovo nome, di origine napoleonica, di Alto Adige; che non sia concessa alle minoranze alloglotte alcuna tutela internazionale né alcuna autonomia; che il confine sia spostato al Brennero. Ciò è ufficialmente ottenuto con la firma del trattato di pace appunto di Saint Germain il 10 settembre 1919. Il Trentino (Provincia di Trento) e l’Alto Adige (Provincia di Bolzano) formano così la nuova regione geografica della Venezia Tridentina.

Tolomei poté vantarsi di un eccezionale successo politico, presentandosi sul suo Archivio come “padre del confine al Brennero”. Per le sue eminenti benemerenze verso la Patria, il Re lo nominò Senatore del Regno il 1° marzo 1923.

Iscritto al PNF sin dal 1° marzo 1921, diventa il principale esponente del Fascio bolzanino. In tale veste si adopera strenuamente per l’Italianizzazione dell’Alto Adige. ‘E tra i promotori dell’innalzamento del monumento alla Vittoria presso il ponte Talvera, a Bolzano.

Nel giugno 1923 organizza l’occupazione del Municipio di Bolzano e la deposizione dell’ultimo borgomastro tedesco, Julius Perathoner.

Il 15 luglio 1923, con un memorabile discorso al Teatro Civico di Bolzano, iniziato con un entusiastico “Camerati fascisti! Spunta l'alba radiosa di una nuova epoca, oggi inizia a Bolzano l’Era Fascista”, si fa promotore di un manifesto per l’Italianizzazione dell’Alto Adige in 32 punti, riassumibili come di seguito: proibizione dell’uso ufficiale del tedesco; Italiano unica lingua ufficiale; chiusura delle scuole tedesche; scioglimento dei partiti tedeschi; trasferimento degli impiegati allogeni; italianizzazione totale della toponomastica alloglotta, comprensiva di cognomi, strade e vie; soppressione dei giornali tedeschi. L’opera di sradicamento del germanesimo è seguita costantemente dal Governo centrale e dal Duce in prima persona.

Bolzano contava allora 40.000 abitanti, in maggioranza tedeschi. Tolomei si prefisse di ingrandire la città con l’obiettivo di raggiungere i 100.000 abitanti, favorendo l’immigrazione di Italiani provenienti dalle altre Province.

Nell'estate 1935 inizia la costruzione di un’ampia zona industriale presso i prati di Agruzzo; contemporaneamente a sud-ovest della città sorgono nuovi quartieri organizzatissimi, con caseggiati, scuole, chiese, istituzioni sociali. Quando le prime fabbriche cominciano a funzionare, arriva anche la prima ondata di immigrati; nel 1936 sono circa 4.000, nel 1937 quasi 8.000. Bolzano diventa così una grande città più marcatamente Italiana.

Alla fine degli anni trenta Tolomei ha un grande ruolo nel celeberrimo accordo Mussolini-Hitler sulla questione altoatesina: si tratta delle “opzioni”, ovvero la migrazione volontaria nel Grande Reich Germanico dei sudtirolesi tedeschi e ladini che sceglieranno la cittadinanza tedesca. Tale soluzione ebbe un precursore nell’irredentista Adriano Colocci-Vespucci, che già prima della Grande Guerra disse a Tolomei: “La soluzione migliore per risolvere il problema della minoranza in Alto Adige è quella di ricacciare in massa i tedeschi oltre il Brennero”.

Tolomei è entusiasta della situazione: ormai lo scopo è totalmente raggiunto. Grazie a Mussolini e Hitler la questione altoatesina sta giungendo a soluzione. Egli scrive nel suo Archivio: “Il trattato fra Roma e Berlino sul trasferimento dei sudtirolesi nel Reich Germanico è qualcosa di meraviglioso, la cosa più grande che sia stata intrapresa dalla Guerra in qua per l'assimilazione dell'Alto Adige”.

In questo periodo accresce anche la sua attività parlamentare, divenendo Membro della Commissione dell'Educazione Nazionale e della Cultura Popolare (17 aprile 1939-14 novembre 1940) e Membro della Commissione degli Affari Esteri, degli scambi commerciali e della legislazione doganale (14 novembre 1940-5 agosto 1943).

Tuttavia non si riuscirà a completare la ratifica delle “opzioni”: giunge il II conflitto mondiale, che travolge ogni desiderio ed ogni speranza. Tolomei, distrutto dagli eventi, si ritira a Roma, dove morirà il 25 maggio 1952.


(1865-1952)

venerdì 30 aprile 2010

Omaggio a Eva Braun

Omaggio a Eva Braun

Eva Anna Paula Braun (Monaco di Baviera, 6 febbraio 1912 – Berlino, 30 aprile 1945) fu la compagna e, nell'ultimo giorno della sua vita, la moglie di Adolf Hitler.

The Life And Death Of Eva Braun



Eva Braun . . . Una vita



Adolf Hitler & Eva Braun



Ella ebbe per Adolf Hitler un sentimento grandioso .(Glenn B. Infield, scrittore e studioso di fatti storici che, come ex maggiore dell’esercito, ha potuto seguire da vicino molti dei fatti che in seguito ha analizzato nei suoi scritti.)



Il soggiorno privato di Eva al Berghof, la residenza alpina di Hitler


Villa di Eva Braun nella Wasserburgerstrasse 12, oggi Delphstrasse, dono di Hitler, nella quale andò ad abitare nel 30.03.1936


Eva e la sorella Gretl


EVA TRACCIE DAL DIARIO........


Ottobre 1929: raccontando alla sorella Ilse il primo incontro con Hitler
“Ero rimasta dopo l’ora di chiusura [nello studio del fotografo Heinrich Hoffmann, dove lavorava come segretaria-modella, n.d.c.] per mettere a posto certe carte e mi ero arrampicata su una scaletta per raggiungere i raccoglitori che venivano tenuti sugli scaffali in alto dell’armadio. In quel momento il principale entrò accompagnato da un uomo di una certa età, con dei buffi baffetti, un soprabito chiaro di stile inglese e un gran cappello di feltro in mano. Sedettero tutti e due dall’altra parte della stanza, di fronte a me. Cercai di dare un’occhiata nella loro direzione senza far vedere che mi voltavo e mi accorsi che quel tipo mi stava guardando. Proprio quel giorno avevo accorciato la gonna…”

16 febbraio 1945: Festa di compleanno“Mia sorella Ilse esagera sempre. Io non ho paura, io so che, oggi, il mio posto è a Berlino, accanto a lui. Se la Germania soccomberà, nulla ha più importanza: vivere o morire è indifferente. Ma la Germania vincerà, Hitler non può sbagliare e chi dice il contrario è un traditore.”
Nel bunker, alla vigilia della morte:“Le mie fotografie devono essere conservate. Il mondo deve sapere che sono esistita.”
Alla segretaria di Hitler, Traudl Junge, prima del suicidio:“Mi saluti Monaco e tenga la mia stola di volpe. Mi sono sempre piaciute le persone ben vestite.”
“Ho aspettato per tre ore fuori dal Carlton e ho dovuto osservarlo mentre comprava fiori per Anny Ondra e la invitava a pranzo.”[...] Desidero una cosa sola, ammalarmi gravemente e non sentire più niente di lui almeno per una settimana. Perché non è arrivato niente per me, perché devo sopportare tutto questo? Oh, se almeno non l’avessi mai incontrato. Sono disperata. Adesso compro di nuovo dei sonniferi, poi cado in uno stato di torpore, così non devo più pensare a lui in continuazione. L’inferno deve essere preferibile a questa situazione.”
“Ogni giorno litighiamo su questa storia della cucina vegetariana. Io non posso proprio adattarmi a mangiare quella roba.”
“… lui è completamente cambiato. Non è più quello di prima. Avevo aspettato con gioia di poter venire a Berlino, ma adesso è tutto diverso. Der Chef non fa che parlarmi di cibo e di cani. Spesso Blondi [il pastore tedesco di Hitler, n.d.c.] mi fa venire veramente il nervoso. Alle volte do un calcio al cane sotto il tavolo e Adolf resta molto sorpreso del ridicolo comportamento dell’animale. E’ la mia vendetta.”

Ad un negoziante di articoli in pelle della Kurfürstendamm, acquistando un set di borse e valigie di coccodrillo:“Non le ho chiesto il prezzo. La prego di mandare tutto nel mio appartamento. Cancelleria del Reich, all’attenzione del Führer.”
“Perchè io devo vivere nell’ombra e aspettare finché Hitler sarà vecchio?”
“Ha bisogno di me solo per esigenze speciali.”
“Noi Braun abbiamo la testa dura. [...] Quando noi Braun ci mettiamo in testa qualcosa, beh, non cambiamo idea tanto facilmente.”
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Questa foto girò il mondo, ma erano i figli della migliore amica di Eva Braun,

Herta Schneider

Da una lettera ai genitori:“Sto per raggiungere il mio Führer, perché voglio essergli accanto nell’ora del pericolo. Forse non ci rivedremo mai più.”

21 Aprile 1945: Da una lettera alla sorella Gretl

“Come mi rincresce che tu debba ricevere una simile lettera da me. Ma è inevitabile. Ogni giorno, ogni ora la fine può arrivare e devo quindi approfittare di quest’ultima occasione per dirti che cosa resta da fare… Quanto al Führer, egli ha perso ogni speranza di una soluzione felice del conflitto… Ma naturalmente non ci lasceremo prendere vivi….”

Adolf Hitler e Eva Braun (a colori)