domenica 31 gennaio 2010

ITALO BALBO (1896-1940)

I Personaggi del Fascismo



ITALO BALBO (1896-1940)

Giovane ardito della Grande Guerra, vivace organizzatore dello Squadrismo e del Fascismo, Quadrumviro della Marcia su Roma in rappresentanza dell’ala squadrista. Eroe delle trasvolate oceaniche e simbolo dell’orgoglio nazionale italiano tra gli anni ’20 e ’30, perisce all’inizio della seconda guerra mondiale in un grave quanto assurdo incidente aereo.


Italo Balbo nasce a Quartesana di Ferrara il 6 giugno 1896, da famiglia borghese. Giovanotto allegro, alto, magro e robusto portò sin da giovane una caratteristica barbetta a pizzo. Interventista convinto, allo scoppio della Grande Guerra si arruolò inizialmente nei reparti ciclisti e poi nell’8° reggimento degli Alpini (1915-18), lasciando momentaneamente l’Università. Al fronte fondò il giornale di trincea L'Alpino, che diventerà la testata ufficiale dell’Associazione nazionale delle penne nere.

Tornò dalla Guerra Vittoriosa con i gradi di Capitano, raggiunti per successive promozioni, e con due medaglie d'argento e una di bronzo al valor militare. Aveva combattuto eroicamente, interpretando appieno lo spirito dell’arditismo; nell'azione guerresca aveva portato il suo fervore patriottico, il suo slancio interventistico e l'ardimentosa natura del suo temperamento. Fu infatti tra i promotori della figliolanza ideale dello Squadrismo postbellico rispetto all’Arditismo della guerra.

Dopo l'esperienza di guerra, conseguì a Firenze la laurea in Scienze politiche e sociali, dimostrandosi subito interessato alla politica d’azione, così come all’azione si era abituato in trincea.

Avvicinatosi all’ideale nazionalistico repubblicano e massonico, aderì al Fascismo, iscrivendosi già nel 1919 al Fascio di Firenze. Abbandonata la massoneria, tornò a Ferrara nel 1920 trovandosi di fronte ad uno dei campi di battaglia politico-sociale più accesi, con scorribande continue perpetrate dalle leghe rosse e popolazione agraria in difficoltà.

Balbo era coraggioso, decorato, esuberante e imperativo e divenne tosto il capo indiscusso delle Squadre Fasciste locali, conquistandosi la fiducia della popolazione rurale. Balbo intraprese immediatamente la lotta contro il sindacalismo socialista della Bassa padana, organizzando assalti e operazioni di difesa dalle leghe rosse, dalle camere del lavoro e financo dai municipi rossi. La sua squadra si chiamava “Celibano”, traduzione in dialetto ferrarese nientemeno che del “cherry-brandy”, bevanda preferita da Balbo e tipica del loro caffè, il “Situzz”. Il suo calore e il suo sprezzo del pericolo gli conquistarono seguito sempre più largo e la sua fama correva tutta la Bassa.

Tra le sue ardite imprese squadriste del 1921-22 si ricordano: le incursioni contro gli antifascisti di Goro, di Mesola, di Copparo, di Massafiscaglia, di Poggiorenatico; tra il 24 e il 25 marzo 1921, alla testa di 4000 uomini armati, l'assalto a Portomaggiore, occupando e tenendo il paese come un capitano di ventura; la spedizione punitiva contro Ravenna; la battaglia dell’estate del ’22 contro i socialisti di Oltretorrente a Parma, dove non riuscì a sfondare; l’assalto al Castello Estense di Ferrara; le operazioni di supporto ai Camerati di Venezia, Bologna e Milano.

In particolare il primo giugno 1922 capeggiò col suo già fraterno amico Dino Grandi una specie di “marcia su Bologna”, che fu un prologo della Marcia su Roma e che si concluse con la destituzione del Prefetto.

Il 16 ottobre 1922 Balbo si incontra all'Hòtel du Parc di Bordighera con De Vecchi e De Bono, per gettare le basi dell'azione rivoluzionaria nella Capitale. In questa occasione conosce l’anziana Regina Margherita, che li invita a colazione esortandoli ad agire. Profondamente colpito dall’acume mostrato dalla Regina Madre, inizia ad abbandonare l’ideale repubblicano e a legarsi alla Casa Reale, riconoscendo alfine l’insostituibile ruolo della Monarchia. Nominato, con De Bono, Bianchi e De Vecchi, Quadrumviro in rappresentanza dello Squadrismo, conduce al trionfo la Rivoluzione, muovendo da Perugia all’Urbe.

Dopo la vittoria, resta dei più intransigenti. Costituita la MVSN (1923), Balbo, a soli ventisette anni, ne è subito uno dei quattro Ispettori Generali, con Gandolfo, Igliori e Perrone Compagni, nonché Comandante Generale.

Intanto comincia ad interessarsi sempre più all’aeronautica, che nel 1923 il Vicecomissario Aldo Finzi aveva contribuito a trasformare in Arma dell’Esercito (Regia Aeronautica). Il Commissariato viene trasformato in Ministero dell’Aeronautica, alla guida del quale si pone lo stesso Duce, che nel novembre del 1926 lo chiama quale Sottosegretario, nella cui veste intrattiene importanti relazioni col Principe Ereditario Umberto, di cui diviene amico di ferro. Da allora si dedica, con frenetico attivismo, allo sviluppo dell'arma aerea, una passione che lo rende presto famoso in tutto il mondo e che lo porta nel 1929 ad essere nominato prima Generale di Squadra Aerea, poi Ministro stesso dell'Aeronautica.

Come Ministro, Balbo promuove subito la costituzione di organi indipendenti: il centro studi di Montecelio, diretto dall'ingegner Guidoni, per coordinare e promuovere lo sviluppo aeronautico, e la scuola di Alta velocità, a Desenzano del Garda. Partono così i primi voli di un certo rilievo, ma le aspettative di uno sviluppo efficiente e poderoso dell’arma aerea si infrangono presto con la realtà: aerei da caccia e bombardieri con velocità limitate, parco di veicoli da combattimento ancora arretrato.

Tuttavia si riesce ad organizzare una trasvolata atlantica con uno stormo di idrovolanti. Per lo scopo Balbo seleziona i migliori piloti provenienti dalla scuola di Navigazione Aerea d'Alto Mare, diretta dal Maggiore Ulisse Longo, e li addestra egli stesso al volo cieco e alla pratica delle comunicazioni radio.

Il 17 dicembre 1930 decollano da Orbetello dodici idrovolanti S. 55 adattati per il volo oceanico, con l'appoggio di cinque cacciatorpediniere. Dopo le prime difficoltà, dovute al cattivo funzionamento dei motori Fiat, undici aerei riescono, il 15 gennaio 1931, ad ammarare a Rio de Janeiro, dopo aver percorso diecimila chilometri. L’impresa riesce e ciò sprona Balbo a mettere allo studio nientemeno che un giro del mondo, da effettuarsi nel 1932, nel quadro delle manifestazioni per la celebrazione del Decennale della Marcia su Roma.

Il progetto però viene bloccato dalla guerra sino-giapponese che preclude i cieli dell'estremo oriente e dall'arrivo dell'onda lunga della recessione americana. Balbo è costretto a cambiare obiettivo e ad organizzare una trasvolata ugualmente notevole, la Orbetello - Chicago - New York – Ostia. Lungo il percorso vengono dislocate sei baleniere, due vedette e due sommergibili, e tre stazioni meteorologiche, appositamente allestite in Groenlandia, pronte a fornire agli equipaggi, via radio, i bollettini necessari. Il 7 luglio 1933 decollano da Orbetello venticinque S. 55, muniti di due motori Isotta Fraschini da 930 HP. Dopo il sorvolo delle Alpi, le mete successive sono in Islanda, in Canada, per ammarare infine a Chicago e successivamente a New York, dove ai piloti e a Balbo stesso viene riservato un trionfo senza precedenti a Broadway.

Balbo entra così nella leggenda, ricevendo anche gli onori del Duce che lo premia col grado supremo di Maresciallo dell'Aria e con un trionfo Romano. Il 26 novembre del 1933 Balbo viene nominato Governatore della Libia e in tale veste avvia la trasformazione della Colonia in regione a tutti gli effetti, con 4 Province (Tripoli, Bengasi, Misurata, Derna) e un Territorio Desertico direttamente amministrato dal Governo Nazionale.

Con la partecipazione alla guerra civile spagnola si assiste alla prima sfida per i piloti Italiani, che a bordo dei velivoli da caccia Fiat C.R. 42 Falco e Fiat C.R. 32, senza radio a bordo, senza corazzature, senza una cabina chiusa e con scarso armamento, diventano anche oggetto di gravi incidenti, come quello capitato al Capitano Ernesto Botto, che il 12 ottobre del 1937, ai comandi di un C.R. 32 sui cieli di Saragozza, si imbatte in uno scontro con un caccia sovietico, dal quale riesce ad uscire vivo seppur mutilato di una gamba. In suo onore la 32° Squadriglia Caccia prende il nome di Gamba di Ferro. L’audacia e l’intelligenza dei nostri piloti si deve in gran parte all’opera di Balbo.

La guerra in Spagna è un banco di prova per la nostra aeronautica, che di lì a poco, affronta anche il secondo conflitto mondiale avendo come armamento principale solo il coraggio e l’abilità dei piloti, alla guida delle famose “vacche”, soprannome dei SM 79, 80, 81, 82.

Ostilissimo all’avvicinamento alla Germania, alle leggi razziali e all’entrata in guerra, si erge a vero e proprio difensore della comunità ebraica d’Italia. Tuttavia una grave sciagura colpisce l’Italia: il 18 giugno 1940, ad appena 18 giorni dall’ingresso dell’Italia in guerra, per un fatale e assurdo errore la contraerea italiana centra in pieno l’aereo di Italo Balbo che non era impegnato in nessuna missione, ma solo in un volo di ricognizione nei cieli africani, privando l’Italia di uno dei suo figli più forti, più arditi, più devoti.

Il Generale Balbo eroe delle trasvolate oceaniche e simbolo dell’orgoglio nazionale italiano



(1896-1940)

sabato 30 gennaio 2010

LUIGI FEDERZONI (1878-1967)

I Personaggi del Fascismo



LUIGI FEDERZONI (1878-1967)

Di nobile famiglia, Luigi Federzoni nasce a Bologna il 27 settembre 1878, figlio di Giovanni, Professore d’Italiano e studioso di Dante, ed Elvira. Eccellente studente, dopo aver frequentato il Liceo si iscrive all’Università della sua città, dove conosce Carducci, e in breve tempo riesce a laurearsi in Lettere e poco dopo in Giurisprudenza (1900).
Giovinetto, si appassiona alla letteratura e alla pittura; scrive romanzi, opere teatrali e dipinge. Accantonata la passione artistica, intraprende l’attività di giornalista e sposa Luisa Melotti Ferri, detta Gina. Nei suoi primi scritti giornalistici, svolti nei principali giornali nazionali, Federzoni si fa promotore di un’unificazione di tutte le molteplici tendenze nazionalistiche che in quei primi anni del nuovo secolo andavano formandosi. Federzoni fu il primo ad intravedere che un compattamento di queste forze per certi versi ancora molto eterogenee avrebbe creato le basi per un grande movimento di massa. Questo impegnativo lavoro culminò nel 1910, quando Federzoni riuscì a costituire l’Associazione Nazionalista Italiana (ANI) in cui ritrovansi quegli uomini appartenenti un po’ a tutte le anime del composito nazionalismo italiano, che in seguito avrebbero trovato compiutezza nel Fascismo.

Tra questi vi erano nazionalisti della sinistra storica crispiana, nazionalisti della destra storica, nazionalisti Cattolici, ognuno con le sue esperienze e i propri principî, ma tutti accomunati da quella volontà di cambiamento nazionalista che col suo impeto avrebbe dovuto “rimodellare” l’intera Nazione. Queste premesse portarono alla stesura di un programma comune. Nel 1911 Federzoni fonda il giornale L’Idea Nazionale, che diventa subito il punto d’incontro e di dibattito tra tutte le correnti del nazionalismo Italiano, auspicando il passaggio dall'associazionismo alla fondazione vera e propria di un Partito Nazionalista. Questo processo fu lungo e laborioso e in particolare si attuò col convegno di Roma del 1912, che proclamò l'interventismo in Libia, e con quello di Milano del 1914, con cui l’associazione divenne definitivamente Partito Nazionalista. Intanto già nel 1913 Federzoni era stato eletto Deputato, primo esponente nazionalista a giungere alla Camera. In quegli anni la nuova cultura che si era sviluppata attorno a riviste quali Il Regno e La Voce, con i suoi Verga, De Amicis, Rapisardi, De Sanctis, D’Annunzio, Pascoli, Pirandello, Borgese, Marinetti, Gentile, Croce si ritrovò largamente coinvolta nel nuovo progetto nazionale e lo stesso Federzoni ebbe numerosi contatti con tutte queste personalità. Federzoni contribuisce a superare il “dibattito negativo”, limitato alla critica del positivismo, della democrazia, del liberalismo, del socialismo materialista, per trasformarlo in “dibattito positivo”, con l’individuazione cioè di obiettivi, metodi e strumenti sociali e politici.

Tra i fautori di questa trasformazione troviamo, accanto al Federzoni, Enrico Corradini con tutti coloro che si ritrovarono intorno al giornale L’Idea Nazionale e cioè Maraviglia, Coppola, Forges Davanzati e dal 1914, Alfredo Rocco, il celebre giurista del futuro Codice Penale. Il presupposto sociale che Federzoni individua è quello dell'unione fra “élite di classe”: élite proletaria, borghese, aristocratica. In particolare si assiste ad una volontà di rigenerare l’intera classe borghese, il cui compito politico primario appare ora quello di sostituire le vecchie élite borghesi decadenti del trasformismo giolittiano e di opporsi fieramente all’avanzata marxista.

Da questa impostazione derivavano sia la supremazia della politica estera sulla politica interna, sia il bisogno di uno Stato forte, disciplinato, che trovava i suoi simboli unificanti nella Monarchia e nell’Esercito.

Le ricadute ideali e politiche di questa impostazione non erano di poco conto. La definizione dell’apparato ideologico del partito, condusse a superare il semplice patriottismo e ad abbandonare vecchi baluardi del Risorgimento come l’anticlericalismo e il liberalismo economico, ritenuto prodotto dell’individualismo, figlio, quindi, della stessa pianta da cui nasceva il socialismo. Proprio in quest’ottica vanno interpretate alcune defezioni dal partito, avvenute tra il 1911 e il 1914, giudicate necessarie da Federzoni: uscì dal partito Sighele, che voleva ridurre il nazionalismo all’irredentismo; se ne andarono Arcari, Rivalta e Valli, capifila dell’associazionismo e del vecchio nazionalismo anticlericale di stampo risorgimentale; se ne uscì l’intera ala liberale, confluita poi nel liberalismo giolittiano.

Dopo il successo alle politiche del 1913, il partito di Federzoni conquista numerosi seggi alle elezioni amministrative del 1914. Con lo scoppio della Grande Guerra il Partito Nazionalista è in prima fila nella campagna interventista e Federzoni sprona con dibattiti tutto il mondo culturale all’intervento. Col 24 Maggio del ’15 Federzoni parte volontario nell’esercito combattendo per quasi tutto il quadriennio e ottenendo una medaglia d'argento al valore militare.

Dopo la Vittoria, contemporaneamente alla nascita delle Camicie Nere Fasciste, anche Federzoni decide di costituire un gruppo paramilitare che funga da braccio armato del Partito Nazionalista: sono le Camicie Azzurre, che giunsero nel 1922 al numero di 30.000 unità ed ebbero l'azzurro dal colore della Real Casa; il loro motto fu “sempre pronti” e l'inno “Fiamma Azzurra”, il cui ritornello suona: Noi giuriam con viva gioia/ di combattere e morire/ per l'azzurro dei Savoia/ per l'Italia e per il Re.

Durante i turbolenti anni del primo dopoguerra si assiste al lento e talora contrastante avvicinamento tra il Nazionalismo di Federzoni e il Fascismo di Mussolini. Tuttavia già dalla comune lotta interventista, enorme rimaneva lo jato fra il concetto mussoliniano di guerra rivoluzionaria e quello federzoniano di guerra imperialista. Di un vero e proprio problema di rapporti fra Fascismo e Nazionalismo, pertanto, si può parlare fino al 1921, quando si attua la svolta decisiva nell'azione che porterà alla Marcia su Roma. Infatti con le elezioni che portano in Parlamento 35 deputati Fascisti eletti nei Blocchi Nazionali e col congresso Fascista dell’Augusteo, del novembre 1921, si certifica la definitiva alleanza di ferro del Fascismo col Nazionalismo, di Mussolini con Federzoni.

Tuttavia a porre per primo il problema di una fusione tra i due movimenti non fu né Mussolini né Federzoni, bensì il futuro Quadrumviro Cesare De Vecchi nel corso di un’intervista rilasciata all’Idea Nazionale il 16 novembre 1921.

Federzoni, dal canto suo, raccolse la proposta sottolineando però che: “primo: i nazionalisti sono fermamente Monarchici mentre i Fascisti sono ancora agnostici; secondo: nonostante le sue straordinarie benemerenze, il Fascismo non ha ancora acquistato vera consistenza e organicità di partito politico e non potrà farlo che identificandosi col nostro Nazionalismo”. Così l'altro esponente nazionalista di spicco, il siciliano Prof. Francesco Ercole che, sempre nel 1921 nel suo articolo “Contro un’affrettata fusione”, rimarcava i pericoli che scaturivano dalla ancora presente mancanza Fascista di “una concezione etica e integrale della vita”. Da parte Fascista, il 2 febbraio 1922, in un articolo sul Popolo d’Italia intitolato "Per intenderci", a Federzoni ed Ercole rispondeva Dino Grandi, capovolgendone le tesi: non era il Fascismo che doveva identificarsi col Nazionalismo, ma, al contrario, era questo che doveva modificarsi e venire sulle posizioni del Fascismo: “Mentre il Nazionalismo è nato dalla elaborazione dottrinaria per giungere alla negazione pratica, si potrebbe quasi dire che il Fascismo è nato dalla negazione dottrinaria, per giungere all’elaborazione pratica.

In un periodo storico che afferma l’incontrastato dominio delle grandi correnti popolari, ieri assenti, ed oggi quanto mai volitive, presenti e chiamate ad operare entro i partiti, il Fascismo altro non può essere se non l’espressione di questa grande realtà storica”. Federzoni rimase assai colpito dall’articolo di Grandi e ne parlò con Mussolini, il quale, dopo un’iniziale cautela, accoglierà totalmente le tesi grandiane.

Intanto il 23 Marzo 1922 Federzoni diventava Vicepresidente della Camera dei Deputati. Avvicinandosi la Marcia su Roma, l'unione dei movimenti si accelera. Federzoni, parlando al Lirico di Milano il 15 ottobre 1922, ribadì l’assoluta e imprescindibile importanza della difesa della Monarchia, la necessità di un governo “in una parola di reazione”, ottenibile anche con una Rivoluzione. Poco dopo al Teatro San Carlo di Napoli analogo discorso teneva Mussolini, ribadendo “assoluta fedeltà e dedizione a Casa Savoia”. Lo stesso giorno, sempre a Milano, con tempismo non casuale, si teneva una riunione delle Camicie Azzurre sull’atteggiamento da tenere se i Fascisti fossero passati all’azione. Le Camicie Azzurre risolsero subito: “affianco alle Camicie Nere”.

Con la gloriosa Marcia su Roma del 28 Ottobre 1922, ove Camicie Nere e Camicie Azzurre compirono insieme la Rivoluzione, furono ultimate le ultime formalità per la fusione e nel 1923 le Camicie Azzurre confluivano nelle Camicie Nere e nella MVSN, col preciso compito della difesa del Regime Fascista indissolubilmente legato a Casa Savoia. Tutta la dirigenza del Partito Nazionalista confluiva nel PNF, rivestendone subito importanti cariche. In particolare Federzoni fu subito ammesso al neonato Gran Consiglio del Fascismo.

Il 31 Ottobre 1922 Federzoni, dimessosi da Vicepresidente della Camera, entra nel primo governo Mussolini quale Ministro delle Colonie (31 ottobre 1922-17 giugno 1924), per poi diventare nel secondo gabinetto Ministro dell'Interno (17 giugno 1924-6 novembre 1926) e nuovamente Ministro delle Colonie (6 novembre 1926-18 dicembre 1928). In tali vesti ottiene importanti successi in particolare nell’opera di normalizzazione seguita alla Rivoluzione e durante la “crisi Matteotti”. Nei primi mesi del 1927 Federzoni, da poco tornato al dicastero delle Colonie, inizia a scrivere i suoi Diari, preziosa autobiografia, ove annota puntualmente, ora per ora, le proprie giornate, i propri incontri, le proprie impressioni. Ne emerge un quadro interessante e talvolta ironico e malinconico sulla difficoltà dell’azione di governo, constatando come la scorrettezza di un solo uomo possa talora capovolgere la correttezza di molti uomini. In questo suo secondo mandato alle Colonie, Federzoni si occupa del riassetto amministrativo della Libia, in vista di una sua piena adesione al Regno d’Italia come regione vera e propria.

Tuttavia dai suoi Diari si nota una certa insofferenza per lo scarso zelo con cui fu accolto il progetto di legge: “ho l'impressione che nessuno (…) si sia reso conto dell'importanza storica e del significato di novità di questa legge, rispetto alla posizione dell'Italia nel Mediterraneo”. Il 22 Novembre del 1928 Federzoni è nominato Senatore del Regno. Del Senato diventa Presidente il 29 aprile 1929, diventando la terza carica del Regno per circa 10 anni, fino al 2 marzo del 1939. In tale veste assurge a grandissimo prestigio, anche internazionale.

Incrementa in modo impressionante la sua attività culturale, diventando Presidente dell'Istituto di Studi Romani (1929-1931), Presidente della Società anonima letteraria Nuova Antologia (1931), Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei (6 maggio 1935-4 gennaio 1946), Presidente dell'Istituto Fascista dell'Africa Italiana (1937-1940), Presidente dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana (17 marzo 1938-6 ottobre 1943), Presidente dell'Accademia d'Italia (1938-1943) dopo Marconi e D’Annunzio. Tra le sue attività in Senato si segnalano la Presidenza della Commissione per il Regolamento Interno, nella cui veste contribuisce a dar sempre maggior lustro all’Alta Camera, e la partecipazione alla Commissione dell'Educazione Nazionale e della Cultura Popolare dal 1939 al 1943.

Grande ruolo ebbe inoltre Federzoni come Consigliere di S. M. il Re e come intermediario nei rapporti col Vaticano, sia nell'avvio del processo di Conciliazione e di ratifica del Concordato, in particolare grazie ai suoi contatti con Mons. Luigi Haver, sia in seguito per dirimere i problemi sorti circa l’associazionismo Cattolico. In questo periodo intraprende numerosi viaggi nel mondo, abbinando la politica al viaggio di piacere. In particolare in Germania ha un interessante incontro col neo-cancelliere Hitler.

Ecco il ritratto che ne fa nei suoi Diari: “È un tipo franco, vivace, dai capelli neri impomatati, con una ciocca quasi napoleonica sulla fronte. Porta i baffetti neri tagliati a spazzola e ridotti alla minima estensione sotto il naso. Parla gesticolando, e con un accento incisivo e perentorio. La figura fisica e il modo di fare sono assai piú dell'austriaco che del tedesco. Mostra un'assoluta sicurezza di sé. Piú che un demagogo, mi sembra un allucinato, ma comprendo come, anche perché tale, egli possa magnetizzare le folle. Possiede un'inarrestabile abbondanza di parole (...) Egli dice, in sostanza, che per i nazionalsocialisti il problema non è la lotta per la conquista del potere ma l'azione costruttiva dopo tale conquista (...). Sulla prossima vittoria dei nazionalsocialisti Hitler non ha dubbi”,Ostilissimo alle leggi razziali, considerate totalmente estranee alla Nazione ed eticamente errate, si stupì di come, nonostante la manifesta opposizione della maggioranza dei gerarchi e dei parlamentari, esse avessero comunque ottenuto l’avvallo necessario per la promulgazione; in proposito ebbe violenti scontri con Farinacci e iniziò a manifestare i primi dissidi col Duce. Fieramente contrario all’alleanza con la Germania e alla partecipazione alla guerra, si scontrò apertamente con Mussolini, ma rimase inascoltato. Risoltosi ad appoggiare un cambio di governo, fu tra i promotori dell’ordine del giorno Grandi del 25 luglio 1943.

Chiuso improvvisamente il Senato per decreto del nuovo Presidente del Consiglio Badoglio, si ritirò presso l’Ambasciata portoghese del Vaticano, da dove si scagliò violentemente contro la neonata Repubblica Sociale Italiana e Mussolini, da lui definito “traditore dell’idea”. Condannato a morte in contumacia al processo di Verona del 1944, rimase in Vaticano fino al 1947, dedicandosi alla stesura di libri e memoriali, tra cui: Memorie inutili della famiglia Federzoni, curiosissima raccolta di avvenimenti giovanili apparentemente insignificanti, ma ricchi di morale; Le memorie di un condannato a morte, che fu in seguito ampliato dall’autore quale Italia di ieri per la storia di domani, lucida e drammatica analisi degli avvenimenti dal settembre 1943 al giugno 1944: in esso Federzoni si scaglia contro i repubblichini e afferma che laddove per Mussolini egli, con gli altri, rappresentava il traditore, per lui era Mussolini che, con la sua politica demagogica e con l'aver trascinato l'Italia nell'avventura bellica, aveva tradito i presupposti su cui tutti loro avevano costruito il Fascismo e nei quali avevano creduto, poiché questo falso Fascismo degli ultimi anni “non attuò, bensí sciupò, travisò e infirmò, con una volgarizzazione superficiale di tono demagogico, un organismo di idee in cui era un'essenza classica di ordine, di giustizia e di grandezza morale”, e ancora “Dal canto mio, alla vigilia della Marcia su Roma, l'8 ottobre 1922, parlando al Lirico di Milano in nome dei miei amici, avevo francamente indicato a quali condizioni i nazionalisti avrebbero assecondato un'eventuale azione di governo dei Fascisti: rafforzamento dell'autorità dello Stato sopra i partiti; impero assoluto della legge; riconoscimento della Monarchia come presidio fondamentale dell'unità e continuità della Nazione; tutela dei valori religiosi ed etici; elevazione materiale e morale dei lavoratori, accompagnata a ferma difesa dell'ordine sociale; indirizzo economico e finanziario antidemagogico.

Avrò torto; ma io sono rimasto ligio a quei principî, nei quali allora pareva che tutti convenissimo”. Senza mezzi termini Federzoni afferma che era stato proprio Mussolini “ad aver contribuito per il 90 per cento al collasso dell'Esercito, con la sua opera incompetente e incoerente di Ministro delle Forze Armate per oltre quattordici anni e poi di comandante supremo in guerra, e ad aver portato il paese alla disfatta”. Ed era proprio questo che non gli veniva perdonato e che aveva portato i 19 membri del Gran Consiglio, la maggioranza, ad esautorarlo e molti altri a negargli la fiducia che gli avevano dato per vent'anni.

In questa posizione, Federzoni riassume in sé in modo veemente l'atteggiamento di quella classe politica e intellettuale che aveva creduto nel Fascismo e accusava Mussolini di “aver dilapidato follemente il patrimonio dell'unità, dell'indipendenza e della potenza d'Italia, formato con lo sforzo secolare della Nazione; il patrimonio che egli stesso, nei primi anni del suo governo aveva accresciuto e perfezionato”. Un patrimonio che era stato talmente disperso dalla disastrosa condotta della guerra da portare gli italiani, e Federzoni in prima persona, addirittura all’odio totale verso i repubblichini e i tedeschi ed a sperare in una loro sconfitta totale.

Mentre Mussolini finiva “la sua carriera come mercante di schiavi, lasciando che i tedeschi rastrellino ragazzi per il loro esercito. (…) Si pone all'Italia il problema di risorgere: bisogna che gli Italiani, senza dipartirsi dalla loro silenziosa discrezione, si facciano nuovamente conoscere e stimare, ossia dimostrino di essere, come possono essere, un popolo serio, un popolo che sa ancora vigorosamente combattere per una giusta causa: il popolo del Piave e di Vittorio Veneto”. Questo diario esprime il travaglio di una generazione che aveva visto crollare definitivamente i propri ideali e che ora si interrogava sul proprio futuro.

Da questo punto di vista, Federzoni sembrerebbe apprezzare le mosse dei partiti antifascisti e perfino dei comunisti, a cominciare da Togliatti e dal suo appello affinché si cessasse di rivendicare l'abdicazione del Re: con questa richiesta si poneva “termine e rimedio alle inconcludenti diatribe dei vecchi antifascisti ed ex-fuorusciti, esasperati dai loro asti settari, inchiodati alle loro negative posizioni dottrinarie”. Federzoni intuiva che una politica di pacificazione e “ogni cooperazione”, “compresa questa dei comunisti”, potevano essere una soluzione per il futuro del paese: questo perché ad esso, all'indomani della guerra, si sarebbero poste due alternative: “O l'Italia avrà ritrovato nei nuovi cimenti il vigore spirituale che essa destò in sé venticinque anni or sono, e vincerà anche la minaccia del sovvertimento interno; o avrà fallito pure quest'altra prova, e dovrà correre l'alea di diventare, come la nascente Jugoslavia, un pianeta un po' piú grosso del sistema di cui Mosca è il sole”.

Le vicende personali dell'ex terza carica del Regno, condannato all'ergastolo dall'Alta Corte di giustizia nel maggio 1945, avrebbero tuttavia esasperato l'astio nei confronti dei nuovi partiti al governo del paese e annullato ogni sentimento di conciliazione: il fatto di aver subito due condanne antitetiche (la condanna a morte al processo di Verona per tradimento del Fascismo e quella all'ergastolo dell'Alta Corte per essere uno dei massimi esponenti del Fascismo stesso), lo “specialissimo accanimento di autorevoli antifascisti, succeduto immediatamente alla spietata persecuzione mussoliniana”, lo portavano a vedere nel proprio caso personale “un riflesso sia pur minimo dell'atroce marasma di questa Italia che non trova pace neppure con sé stessa, avendo ricevuto in eredità dalla guerra maledetta la discordia, che oggi pare insanabile, dei suoi figli”. Che erano i motivi per i quali, all'indomani del comunicato del mandato di cattura contro di sé e altri gerarchi del settembre 1944, aveva deciso di non costituirsi: “non ho alcuna fiducia - scriveva in una lettera per Bonomi - nell'imparzialità del giudizio che dovrei affrontare”, dato “il preconcetto della mia reità, proclamata prima e all'in fuori d'ogni conoscenza dei dati di fatto”. In un Memoriale difensivo del luglio 1944 rivendicava la sua ligia posizione di “Fascista degli ideali e della buona fede”, opposto ai fascisti della convenienza o del fanatismo servile, capeggiati da Pavolini e Farinacci.

Disgustato anche dai partiti antifascisti ora al potere, nel 1947 Federzoni lascia il Vaticano per il Brasile, ma torna in Italia per difendersi dalla condanna in contumacia a 30 anni subita dall’Alta Corte per il giudizio dei reati fascisti; viene così amnistiato nel dicembre dello steso anno. Nella sua deposizione, in cui si scaglia violentemente contro i comunisti, ribadisce tra l’altro la totale estraneità della Monarchia ai fatti del 25 luglio 1943: “il crollo di Mussolini e del Fascismo è avvenuto per il voto del Gran Consiglio. Contrariamente a quanto è stato piú volte raccontato (...) Dino Grandi e io, promotori del voto, agimmo di nostra spontanea iniziativa, all'infuori di qualsiasi inspirazione della Corte o dello Stato Maggiore. (...) Per parecchi anni il compianto Italo Balbo, io e - compatibilmente con la sua continua assenza dall'Italia - Dino Grandi eravamo stati chiamati i «frondeurs» del Gran consiglio, chiaramente avversi all'indirizzo totalitario della politica interna e a quello filonazista della politica estera. (...) Nel luglio 1943 un certo rinnovamento apportato di recente alla composizione del Governo e, per riflesso, in quella del Gran Consiglio, mediante l'immissione di elementi ottimi, come De Marsico, Pareschi, Bastianini, Albini e altri, e principalmente l'impressione di sgomento prodotta dai disastri della guerra, autorizzava la speranza che un voto di biasimo dei funesti errori politici e militari che li avevano causati potesse finalmente raccogliere una maggioranza.

E cosí, infatti, avvenne”, nella speranza di una purificazione del Fascismo. Stabilitosi definitivamente a Roma negli anni ’50, Federzoni proseguì la propria attività letteraria, appoggiando politicamente il Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica (PDIUM), senza tuttavia impegnarsi più nella politica attiva. Morì a Roma il 24 Gennaio del 1967 all’età di 88 anni.

(1878-1967)

venerdì 29 gennaio 2010

DINO GRANDI (1895-1988)

I personaggi del Fascismo


DINO GRANDI (1895-1988)

Dino Grandi nacque il 4 giugno 1895 a Mordano

in Provincia di Bologna, da una famiglia schiettamente contadina. Il padre amministratore di una grande tenuta, era un ex seminarista divenuto nel tempo anticlericale e liberalmonarchico di stampo risorgimentale; tra le amicizie del padre si annoverava il famoso Andrea Costa, primo socialista ad entrare in Parlamento.

Nonostante l'anticlericalismo paterno, Dino Grandi si avvicinò giovanissimo alle strutture ecclesiastiche diventando assiduo frequentatore della parrocchia. Da giovinetto si recò a Ferrara per frequentare il liceo. Quivi conobbe e si entusiasmò degli scritti di D'Annunzio e Marinetti; le sue letture preferite erano Croce e Nietzsche; con la sua educazione religiosa si avvicinò agli ideali del socialismo cristiano di Murri. Finito il liceo nel 1913, indeciso inizialmente tra le facoltà di medicina e di lettere, si risolve alfine per giurisprudenza, a Bologna.

Voce principale dell'interventismo rivoluzionario universitario bolognese, il diciannovenne Grandi inizia una intensa attività giornalistica entrando nella redazione del Resto del Carlino, su richiesta di Nello Quilici, amico di Italo Balbo. Il Quilici lo apprezza tanto che lo chiama a Roma come giornalista parlamentare.

Nella capitale è il periodo dei grandi fermenti politici, che affascinano il ventenne Grandi, il quale, rientrato a Ferrara nel 1915, pronuncia un memorabile discorso interventista davanti al monumento di Garibaldi, indossando una camicia rossa garibaldina, e invocando la “guerra di redenzione”. Anche lui come tanti socialisti rivoluzionari, crede che la guerra porterà finalmente alla vera Rivoluzione antiliberale. Conosce per la prima volta Mussolini e come lui parte volontario, lasciando gli studi, arruolandosi nello stesso corpo alpino di Balbo. In guerra dimostra un notevole eroismo e le sue gesta lo portano alla promozione sul campo a capitano ed al conferimento di una medaglia d'argento e due croci di guerra. Dopo la Vittoria si congeda e si trasferisce ad Imola riprendendo gli studi.

Ripresa l'attività politica come socialista rivoluzionario (1918-19), rimane scontento del disfattismo del partito socialista e si risolve di unirsi a Mussolini nella fondazione dei Fasci di Combattimento (1919). Nel frattempo termina i suoi studi con la laurea in legge con una tesi in economia politica, “La Società delle Nazioni e il libero scambio”. Mussolini ne comprende l'abilità organizzativa e lo nomina organizzatore dello squadrismo bolognese. La sua guida porta a questo squadrismo una connotazione agraria marcatamente antisocialista. La sua azione si rivolge soprattutto contro le Camere del Lavoro, accusate di essere la sede della coercizione forzata dei lavoratori: alla violenza socialista perpetrata contro i contadini e gli agrari, Grandi risponde con l'organizzazione degli assalti di difesa dello squadrismo; col “santo manganello” riesce a ristabilire ordine e disciplina nelle campagne bolognesi, così come Balbo riuscì a fare nel ferrarese; diventato un eroe del mondo agrario locale viene eletto Deputato nel maggio del '21; tuttavia non avendo ancora l'età richiesta per l'elezione (30 anni; lui ne ha ancora soltanto 26!), viene sostituito da un collega più vecchio.

Continua pertanto ad essere la guida delle organizzazioni sindacali contadine Fasciste con prospettive rivoluzionarie antiborghesi. Accolse freddamente il patto di pacificazione voluto da Mussolini con le forze avverse e depose suo malgrado il "santo di legno": a Mussolini disse: “Con il patto i rossi rialzano la cresta!”. Il giovane Grandi espresse questo suo pensiero in un articolo dell'Assalto il 6 agosto 1921, contestando la nuova linea morbida e ribadendo che l'orda rossa doveva essere piegata ad ogni costo. Mussolini gli risponde tre giorni dopo sul Popolo d'Italia esigendo un chiarimento ed affermando che la Rivoluzione necessitava di un momento di tranquillità che preludesse alla vittoria finale, mettendo in conto anche una eventuale scissione dall'ala oltranzista di Grandi e perfino le dimissioni dal Movimento dei Fasci.

Il 16 agosto del 1921 Grandi riunisce l'ala oltranzista a Bologna, che decide all'unanimità di chiedere a Mussolini la rescissione del patto; Mussolini risponde con le dimissioni dalla commissione esecutiva dei Fasci. Di fronte a tale inaspettata crisi Grandi e Balbo si rivolgono a D'Annunzio sperando in un suo intervento pacificatore. Al congresso Fascista di Roma del novembre '21 si paventa una scissione, ma Grandi nel suo discorso si dimostra disponibile al compromesso e propone a Mussolini alcuni punti di accordo, ribadendo però la sua contrarietà al patto di pacificazione. Mussolini risponde accettando le condizioni di Grandi: con la fine del congresso, che si temeva sancisse una scissione, il Fascismo si ritrova unito più che mai e trasformato a grande maggioranza da movimento a Partito, con alla guida, lui, Benito Mussolini, il futuro Duce. Dentro il nuovo partito Grandi emerge subito come inaspettato moderatore dei rivoluzionari romagnoli.

Alla vigilia della Rivoluzione del '22, insieme a De Vecchi e Federzoni si reca a Roma per organizzare le squadre e viene nominato da Mussolini Capo di Stato Maggiore dei Quadrumviri. In tale veste è tra gli organizzatori della trionfale Marcia su Roma. Contrario come Bianchi a una coalizione con i popolari, propone in un articolo sul Popolo d'Italia del 12 Gennaio 1923 una soluzione "tecnica" con un gabinetto "apartitico", soluzione però non accettata da gran parte del Partito. Rifiuta perciò di diventare Ministro del nuovo governo. Eletto Deputato del PNF nel 1924, Grandi diventa subito Vicepresidente della Camera, ad appena 29 anni; nello stesso anno si sposa con l'ereditiera Antonietta Brizzi, sua conterranea, che gli porta una cospicua dote. Questa donna, colta e bellissima, sarà un'eccellente moglie, che accompagnerà Grandi nella sua futura attività diplomatica.

Con la vicenda del delitto Matteotti del giugno '24, Grandi è tra gli artefici dell'opera di rassicurazione dell'opinione pubblica e degli ambienti moderati. Nel nuovo governo, il Duce gli affida la carica di Sottosegretario agli Interni, e, nel maggio del '25, di Sottosegretario agli Esteri, carica che terrà per quattro anni, in cui tra l'altro, imparerà perfettamente la lingua inglese ed entrerà in contatto col mondo britannico.

Il 12 settembre del 1929 Grandi diventa Ministro degli Esteri in una fase molto delicata, e ancor più delicata quando in ottobre il mondo entra in crisi dopo il ben noto crollo di Wall Street. E' il momento in cui occorre rilanciare l'iniziativa italiana e soprattutto il Fascismo, che ora, con l'America in crisi, l'Inghilterra isolazionista, la Russia nel terrore comunista e la Germania sull'orlo del baratro, è il sistema economico e politico che tutti guardano come modello. Nella sua veste di Ministro degli Esteri, Grandi denota la sua eccezionale abilità diplomatica e contribuisce all'ottima immagine dell'Italia Fascista nel mondo di quegli anni.

I rapporti che imposta Grandi con i vari Stati sono ottimi. Riesce addirittura ad imbastire buoni rapporti commerciali nientemeno che con i sovietici. L'obiettivo di Grandi è di puntare al mantenimento e al consolidamento di una pace in Europa, ed è molto realista. Disse una volta, profetico: “una guerra oggi fra le Nazioni d'Europa altro non si risolverebbe se non in una immane catastrofica guerra civile, in un vero e proprio tramonto e suicidio del nostro vecchio e glorioso continente”. Inoltre è realista sull'Italia bellica e sull'Italia politica: “Il Paese è ricco di uomini, ma è povero di risorse, e non può ancora permettersi il lusso di competere con le grandi potenze sulla preparazione bellica”. E ancora: “Bisogna impegnarsi coraggiosamente in una politica di pace, volta al disarmo e alla collaborazione internazionale. L'Italia può conquistare un suo ruolo specifico e decisivo nel contesto europeo e porre così le condizioni per far valere le proprie storiche rivendicazioni (...) fino a condizionare la politica estera non soltanto in Africa o sul Mar Rosso, ma anche su un più vasto terreno internazionale, in Europa e nei rapporti intercorrenti con la Francia e l'Inghilterra.

Non dobbiamo parificarci adesso nei loro confronti come grande potenza, nè possiamo imporlo, ma creare le condizioni per arrivare a confrontarci: questo lo possiamo fare. Il problema sarà quello di creare un ruolo stabile nel contesto internazionale, dobbiamo darci delle direttive di fondo e ispirarci all'azione. Una potrebbe essere quella di fare dell'Italia l'arbitro della situazione europea, l'ago della bilancia”. Mai nessun Ministro degli Esteri fu così lungimirante; il 2 ottobre 1930 disse: “La Nazione italiana non è ancora abbastanza potente, politicamente, militarmente ed economicamente, da potersi considerare come una nazione protagonista della vita europea.

Ma la Nazione italiana è già tuttavia abbastanza forte per costituire col suo apporto politico e militare il peso determinante alla vittoria dell'uno o dell'altro dei protagonisti del dramma europeo, che prima o dopo esploderà. Posizione quindi di forza e di prestigio, posizione aperta a tutte le possibilità nel futuro a condizione beninteso che l'Italia rimanga libera di scegliere il proprio posto in caso di conflitto a seconda di quelli che essa giudicherà al momento opportuno essere esclusivamente i suoi vitali interessi nazionali”. Durante una riunione della Società delle Nazioni, il 31 agosto del 1930, già aveva scritto un appunto ancor più determinato al Duce, citando Machiavelli: “Il tempo lavora per noi. Noi saremo arbitri della guerra. Ma dobbiamo prendere più alta quota possibile nella politica continentale europea. Fare della diplomazia e dell'intrigo, applicare Machiavelli un po' più di quello che non abbiamo fatto finora.

Il Trattato di Locarno è un pezzo di carta inventato dalla democrazia, può diventare nelle nostre mani la biscia che morde il ciarlatano. Con tutti e contro tutti...". Grandi ripeterà le stesse cose nell'ottobre del 1931 al Gran Consiglio. Eppure molti lo accuseranno di pacifismo e disarmismo. Nella sua azione, Grandi cerca di mettere in difficoltà la Francia, che da tempo è arrogante e si crede egemone in Europa; "Se riusciamo a far questo sarà la stessa Francia a cercare accordi con noi". Ed è per questo che Grandi insiste sulla rivalutazione della Società delle Nazioni; lui mira a farla diventare una comunità di eguali che si misurano unicamente sul prestigio e sulla forza politica. Operando così, Grandi spiazzò tutti gli antifascisti che accusavano il Fascismo, aprioristicamente e in malafede, di essere bellicista. Inoltre questa politica di Grandi rafforzò le già buone relazioni con la Gran Bretagna. Non solo, ma dagli stessi Stati Uniti, quando Grandi nel novembre del '31 volò a incontrare il presidente Hoover, ricevette molti apprezzamenti e la politica del Fascismo in Europa e nel mondo iniziò ad avere un credito universale.

Sebbene Grandi operi diplomaticamente con queste idee costruttive, la Francia non demorde, e anche se lo stesso Grandi ha smascherato a Londra la scarsa volontà della Francia al disarmo, ottiene solo una moratoria nella costruzione di nuove armi per un anno; ma il fastidio e le ostilità di fondo rimangono. La Francia rimane ostile all'Italia a prescindere da tutto, poiché troppo la infastidisce avere un vicino potente.

Intanto si affaccia sulla scena la Germania di Hitler, assurto al potere nel '33, con le sue richieste di annullamento delle riparazioni di guerra e di riscossa dalle umiliazioni subite a Versaglia. Di fronte a un riarmo improvviso di Francia e Germania, sfuma così il sogno di disarmo di Grandi. Quando Mussolini inizia a guardare con interesse alla Germania, lo fa, di concerto con Grandi, con lo scopo di rendere l'Italia il famoso ago della bilancia. A questo punto Grandi, dimessosi da Ministro degli Esteri, viene inviato come Ambasciatore a Londra, dove resterà per sette anni, mantenendo ottimi rapporti con gli inglesi, alternandosi fra mondanità e politica. Sette anni eccellenti in quanto a diplomazia, nonostante l'impresa dell'Italia in Etiopia, malvista e boicottata dai britannici, nonostante le inique Sanzioni e la guerra civile spagnola. Grandi fa il possibile perché Albione ragioni e “non faccia il vile gioco della Francia”, ma l'attrito cresce di anno in anno. Questo immenso sforzo diplomatico gli viene riconosciuto dal Duce e dal Re, che lo crea nel 1939 Conte di Mordano. Con la Firma del Patto d'Acciaio, che Grandi definì assurdo, inizia un grave attrito con Mussolini e Ciano. Grandi continua una diplomazia ormai sterile con Gran Bretagna, Russia e Francia.

Essendo ormai rotti i rapporti con la Gran Bretagna, Grandi viene nel Luglio del 1939 richiamato dal Re in Italia e viene nominato Ministro della Giustizia, Guardasigilli e Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni (la quarta carica del Regno).

In settembre scoppia la guerra in Polonia: Grandi affronta Mussolini e lo consiglia di denunciare il Patto d'Acciaio e di riprendere contatti con la Gran Bretagna. Egli teme che l'Italia, intervenendo a fianco della Germania, cadrà nel baratro. Grandi è soddisfatto quando Mussolini si risolve per la non belligeranza. Tuttavia non riesce ad evitare la dichiarazione di guerra del 1940. Per evitare comunque che nasca subito una divisione politica, il Presidente Grandi pronuncia alla Camera un discorso dai toni aggressivi e bellofili. All'apertura del fronte greco, Grandi decide di partire volontario (caso unico per un Presidente della Camera) e tocca con mano la totale impreparazione militare non solo di mezzi ed è costretto a vedere nei comandi tanta superficialità e tante accuse reciproche.

Intelligente com'è, Grandi forse è l'unico a rendersi conto pienamente della gravità della situazione. Dirà in seguito nelle sue lunghe memorie suddivise in due libri (“25 luglio, quarant'anni dopo” e “Il mio Paese”): “i fatti erano quelli e piuttosto chiari”, ammettendo di aver meditato ed abbozzato già allora il famoso ordine del giorno del 25 luglio 1943. I tedeschi chiamati in aiuto salvarono momentaneamente la situazione in Grecia, ma quando Grandi rientrò a Roma nell'aprile del 1941 era totalmente scoraggiato e scrisse all’incirca: “ne ho viste tante in sei mesi: la nostra totale impreparazione, l'arroganza tedesca; vidi liquidare Badoglio come capro espiatorio da un impreparato come Farinacci, che pur avendo tante responsabilità, non era certo l'unico colpevole”. Grandi decide di esprimere tali e tante perplessità al Duce stesso, che però non gli presta ascolto, e al Re, che gli confida semplicemente di non sapere che fare.

Dopo un mese c'è l'invasione tedesca alla Russia e Grandi decide di dedicarsi al suo compito di Ministro della Giustizia: in tale veste, avvalendosi della collaborazione dei maggiori esperti di diritto procede alla riforma dei codici di Procedura Civile, del Codice di Navigazione e del Codice Civile, ultimato brillantemente nel 1942; contrario alle leggi razziali sin dal ‘38, ottiene che non siano inserite nel Codice Civile, ma restino nella legislazione transitoria ordinaria. Viene insignito nel marzo del 1943 del Collare della SS. Annunziata. Precipitando gli eventi, si risolve all'azione: ormai deluso da un Mussolini, a suo giudizio ormai privo di volontà e succubo di Hitler, redige l'ordine del giorno che determina la caduta del Regime nel luglio del 1943; nel caos generale che ne segue si rifugia all'estero (Portogallo, Brasile, Spagna), presso i numerosi Ambasciatori che aveva conosciuto nella sua lunga attività diplomatica, rifiutando di partecipare a qualunque governo. Condannato a morte in contumacia prima dal tribunale di Verona del 1944 e in seguito dai tribunali partigiani gappisti, torna in Italia dopo l'amnistia nel 1946.

Nei quarant'anni che seguirono si dedicò privatamente al giornalismo e alla scrittura di libri di memorie, difendendo il suo operato dagli attacchi da un lato dei rossi, dall'altro dei reduci Repubblichini, proclamando di aver agito sempre secondo coscienza per il bene dell'Italia. Gli fu anche proposto di ricandidarsi alla Camera, ma rifiutò costantemente.Morì a Bologna il 21 maggio 1988 vicino alla ragguardevole età di 93 anni.

(1895-1988)