venerdì 30 aprile 2010

Omaggio a Eva Braun

Omaggio a Eva Braun

Eva Anna Paula Braun (Monaco di Baviera, 6 febbraio 1912 – Berlino, 30 aprile 1945) fu la compagna e, nell'ultimo giorno della sua vita, la moglie di Adolf Hitler.

The Life And Death Of Eva Braun



Eva Braun . . . Una vita



Adolf Hitler & Eva Braun



Ella ebbe per Adolf Hitler un sentimento grandioso .(Glenn B. Infield, scrittore e studioso di fatti storici che, come ex maggiore dell’esercito, ha potuto seguire da vicino molti dei fatti che in seguito ha analizzato nei suoi scritti.)



Il soggiorno privato di Eva al Berghof, la residenza alpina di Hitler


Villa di Eva Braun nella Wasserburgerstrasse 12, oggi Delphstrasse, dono di Hitler, nella quale andò ad abitare nel 30.03.1936


Eva e la sorella Gretl


EVA TRACCIE DAL DIARIO........


Ottobre 1929: raccontando alla sorella Ilse il primo incontro con Hitler
“Ero rimasta dopo l’ora di chiusura [nello studio del fotografo Heinrich Hoffmann, dove lavorava come segretaria-modella, n.d.c.] per mettere a posto certe carte e mi ero arrampicata su una scaletta per raggiungere i raccoglitori che venivano tenuti sugli scaffali in alto dell’armadio. In quel momento il principale entrò accompagnato da un uomo di una certa età, con dei buffi baffetti, un soprabito chiaro di stile inglese e un gran cappello di feltro in mano. Sedettero tutti e due dall’altra parte della stanza, di fronte a me. Cercai di dare un’occhiata nella loro direzione senza far vedere che mi voltavo e mi accorsi che quel tipo mi stava guardando. Proprio quel giorno avevo accorciato la gonna…”

16 febbraio 1945: Festa di compleanno“Mia sorella Ilse esagera sempre. Io non ho paura, io so che, oggi, il mio posto è a Berlino, accanto a lui. Se la Germania soccomberà, nulla ha più importanza: vivere o morire è indifferente. Ma la Germania vincerà, Hitler non può sbagliare e chi dice il contrario è un traditore.”
Nel bunker, alla vigilia della morte:“Le mie fotografie devono essere conservate. Il mondo deve sapere che sono esistita.”
Alla segretaria di Hitler, Traudl Junge, prima del suicidio:“Mi saluti Monaco e tenga la mia stola di volpe. Mi sono sempre piaciute le persone ben vestite.”
“Ho aspettato per tre ore fuori dal Carlton e ho dovuto osservarlo mentre comprava fiori per Anny Ondra e la invitava a pranzo.”[...] Desidero una cosa sola, ammalarmi gravemente e non sentire più niente di lui almeno per una settimana. Perché non è arrivato niente per me, perché devo sopportare tutto questo? Oh, se almeno non l’avessi mai incontrato. Sono disperata. Adesso compro di nuovo dei sonniferi, poi cado in uno stato di torpore, così non devo più pensare a lui in continuazione. L’inferno deve essere preferibile a questa situazione.”
“Ogni giorno litighiamo su questa storia della cucina vegetariana. Io non posso proprio adattarmi a mangiare quella roba.”
“… lui è completamente cambiato. Non è più quello di prima. Avevo aspettato con gioia di poter venire a Berlino, ma adesso è tutto diverso. Der Chef non fa che parlarmi di cibo e di cani. Spesso Blondi [il pastore tedesco di Hitler, n.d.c.] mi fa venire veramente il nervoso. Alle volte do un calcio al cane sotto il tavolo e Adolf resta molto sorpreso del ridicolo comportamento dell’animale. E’ la mia vendetta.”

Ad un negoziante di articoli in pelle della Kurfürstendamm, acquistando un set di borse e valigie di coccodrillo:“Non le ho chiesto il prezzo. La prego di mandare tutto nel mio appartamento. Cancelleria del Reich, all’attenzione del Führer.”
“Perchè io devo vivere nell’ombra e aspettare finché Hitler sarà vecchio?”
“Ha bisogno di me solo per esigenze speciali.”
“Noi Braun abbiamo la testa dura. [...] Quando noi Braun ci mettiamo in testa qualcosa, beh, non cambiamo idea tanto facilmente.”
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Questa foto girò il mondo, ma erano i figli della migliore amica di Eva Braun,

Herta Schneider

Da una lettera ai genitori:“Sto per raggiungere il mio Führer, perché voglio essergli accanto nell’ora del pericolo. Forse non ci rivedremo mai più.”

21 Aprile 1945: Da una lettera alla sorella Gretl

“Come mi rincresce che tu debba ricevere una simile lettera da me. Ma è inevitabile. Ogni giorno, ogni ora la fine può arrivare e devo quindi approfittare di quest’ultima occasione per dirti che cosa resta da fare… Quanto al Führer, egli ha perso ogni speranza di una soluzione felice del conflitto… Ma naturalmente non ci lasceremo prendere vivi….”

Adolf Hitler e Eva Braun (a colori)



lunedì 26 aprile 2010

Il 30 Aprile Omaggio a Eva Braun

Il 30 Aprile
Omaggio a Eva Braun



giovedì 8 aprile 2010

BERTO RICCI (1905-1941)

I Personaggi del Fascismo


BERTO RICCI (1905-1941)

"L'avanguardista intellettuale del Regime"

Berto Ricci nacque a Firenze il 21 maggio 1905
. Dopo tormentate e svariate esperienze politiche giovanili, aderì nel 1932 al PNF, costituendo l’avanguardia della seconda generazione Fascista con Guido Pallotta, Niccolò Giani, Carlo Roddolo e Dino Garrone, tra l’altro tutti come lui caduti in guerra (salvo Garrone, morto comunque prima della II guerra mondiale). Nel novembre 1932 si era sposato: ebbe due figli Giuliana e Paolo. Si fece subito luce come giornalista nei periodici “Strapaese” e “Selvaggio”. Dopo la laurea in matematica, conseguita a ventun anni a Pisa, cominciò ad insegnare nella scuola media e nel frattempo collaborò con alcune riviste fiorentine, tra cui “Il Bargello”.

Anche se matematico, fu intimamente umanista dedicandosi, oltre alle poesie, a traduzioni di Ovidio e di Shakespeare. Sostenne in effetti la fondamentale necessità dell’impegno nella ricerca scientifica solo quale mezzo, o stadio di transizione, per la cultura moderna. Nel 1931 pubblicò il saggio “Lo scrittore italiano”, intenso scritto che traccia il ritratto inconsueto del vero intellettuale che sa coltivare il suo anticonformismo creativo senza separarsi dalla vita politica e civile del suo popolo.

Ricci dette una rappresentazione alta dell’intellettuale organico, militante e libero ad un tempo. Collaborò al “Popolo d’Italia” ed a “Critica Fascista”; altri suoi scritti furono ospitati in “Primato”, “Valori primordiali”, “Origini”, “Il Saggiatore”, “Il Frontespizio”, “Campo di Marte”.

Il 3 gennaio 1931 avviò la pubblicazione della rivista “L’Universale”, mensile di battaglia per il pieno successo della Rivoluzione Fascista. In questo foglio egli si fa promotore di una classe intellettuale che sia di sprone al Regime, affinché esso si compia perfettamente in funzione anticapitalista, antiborghese ed antimarxista.

Perciò fu sovente criticato per l’eccessivo rigore e l’eccessiva schiettezza; a tali proteste rispondeva: “Troppa gente c’è oggi in Italia che batte le mani a tutto e a tutti, e approva ogni cosa, e crede, o mostra di credere, che discutere un editto d’un podestà sia come discutere il Regime, il che non è Fascismo, anzi servilità vilissima e antifascismo morale”.

Il mensile visse cinque anni, cambiando formato e numero di pagine varie volte ed al terzo anno divenne quindicinale. Oltre ai suoi scritti, “L’Universale” ospitò, tra gli altri, scritti e disegni di Benito Mussolini, Edgardo Sulis, Diano Brocchi, Giorgio De Chirico, Ugo Betti, Indro Montanelli, Giuseppe Ungaretti, Ottone Rosai, Luigi Bartolini, Camillo Pellizi.

Gli scritti di Berto Ricci trattarono di politica, critica di vita quotidiana, problemi di costume, recensioni di libri, poesie e ferme polemiche. I suoi pezzi più seguiti ed attesi dai lettori furono i famosi “Avvisi” coi quali aprì spesso notevoli polemiche a tutto tondo.

“L’Universale” terminò le pubblicazioni il 25 agosto 1935 e l’editoriale di Ricci, concludeva: “Questo giornale finisce quando deve finire, quando il suo desiderio di battaglia e di grandezza trova appagamento magnifico nel volere del Capo.

Non altro chiedevamo e non altro credevamo. Bilanci? Li tirerà chi ritornerà. Ora, camerati, non è più tempo di carta stampata: e se ieri un’Italia letteraria ci parve buffa, oggi a noi poeti essa appare come la personificazione dell’irreale. Non è più tempo di carta stampata”; in altre parole: è l’ora del cimento in Etiopia.

Volontario nella MVSN come semplice Camicia Nera della divisione “23 marzo”, rimase così saldo e umile che i suoi compagni seppero che era un Professore soltanto quando i superiori comandi lo inviarono d’autorità a seguire un corso Ufficiali a Saganeiti.

Tornato dall’impresa Imperiale pensò inizialmente di riprendere la pubblicazione, ma poi si dedicò all’insegnamento della matematica per due anni a Palermo, quindi tornò a Firenze ed ebbe la cattedra a Prato.

Nella sua concezione l’universalità Imperiale Romana non doveva più essere mero nazionalismo, al contrario universalismo di civiltà. Perciò fu in polemica con Gentile, ribaltandone la visione di “Stato etico che fa il popolo” in “popolo etico che fa lo Stato”. E infatti si scagliò già nel 1929 contro il Concordato e soprattutto contro l’Enciclica di Pio XI “Non abbiamo bisogno” (circa la difesa dell’Azione Cattolica).

Ciò non tanto per ostilità verso la Chiesa, considerata eccezionale nei suoi aspetti di Santità Francescana e per l’eroismo sacro e profano dei Papi rinascimentali, benché ora troppo legata alla borghesia. Egli rivendicava più semplicemente al Fascismo il diritto ed il dovere assoluto di educare i giovani.

Quasi profetico, si lamentava anche contro il “troppo unisono” e la “troppa ortodossia” che poteva anche “significare un impero della mediocrità”, ritenendo che la migliore avanguardia poteva rappresentare una garanzia contro ogni imbalsamazione o interessata “normalizzazione” del Regime. Insistette sul primato della politica sull’economia, dell’etica e della morale sul denaro, perfezionando il concetto Fascista di “proprietà etica”, opposto al concetto liberale di “proprietà inviolabile”.

Il 10 gennaio 1933 venne pubblicato il “Manifesto realista”, sottoscritto da Ricci, Bilenchi, Pavese, Brochi, Petrone, Ottone Rossi, Sulis, Contri ed altri, “premessa necessaria dell’Impero umano che realizzerà la Monarchia di Dante e il Concilio di Mazzini”; quivi si negava un avvenire sia alle ideologie democratiche sia a quelle marxiste contrapponendo loro “l’imperialismo popolare, l’eticità dell’economia, il dovere del lavoro, il corporativismo”; ancora sul concetto di “sintesi Fascista” scrisse nel 1938, il nemico “fu e resta il centro, cioè la mediocrità accomodante. Il centro è compromesso, noi fummo affermazione simultanea degli estremi, nella loro totalità”.

Gli “Avvisi” de “L’Universale” ebbero profonda eco e indussero Mussolini a far convocare a Palazzo Venezia, nell’estate del 1934, Ricci ed i suoi collaboratori. Si complimentò per vecchie e recenti battaglie (compresa quella contro il razzismo hitleriano: tra i collaboratori de “L’Universale” c’era tra l’altro l’ebreo Ghiron) e li invitò a collaborare col “Popolo d’Italia”, dove tennero una rubrica, “Bazar”.

Partecipando nel 1940 al primo convegno nazionale della Scuola di Mistica Fascista relazionò: “La mistica fascista ripropone al Partito, alla Milizia, agli Organi dello Stato, agli Istituti del Regime, di continuo il tema della unità sociale, dinamica unità che non si limita all’assistenza economica e al miglioramento delle condizioni di chi lavora, insomma a una pratica demofila, ma punta sulla civiltà del lavoro, tende a realizzare una più elevata moralità e insieme un maggior rendimento collettivo (governo della produzione e del consumo, graduale ridistribuzione della ricchezza, bonifica e autarchia, il produttore compartecipe e corresponsabile dell’azienda, il lavoratore proprietario) e per questo, come ogni mistica chiamata a operare in concreto sulla storia e ad ergervi fondazioni durevoli, soddisfa anche a requisiti razionali”.

Un impegno sociale nell’ambito di un regime che aveva attuato le prime uniche vere innovazioni sociali del secolo: istituzione degli enti di assicurazione e previdenza, erogazione degli assegni familiari, otto ore di lavoro giornaliere, assistenza alla maternità ed all’infanzia, colonie per i figli dei lavoratori anche se residenti all’estero, treni popolari, grandi spettacoli viaggianti, riforma scolastica ed edificazione di scuole ed università, grandi bonifiche integrali, redenzione della terra, capillare politica sanitaria ed ospedaliera, emancipazione del sottoproletariato e del proletariato.

Il suo forte anticapitalismo era in realtà l’applicazione coerente del suo antimaterialismo ed antimarxismo; il marxismo “è contrario alla natura umana, specialmente alla natura italiana.”

Ligio ai suoi principj anche nella vita privata, fu esempio di rigore ed umiltà francescana: rifiutò sempre ogni carica, vivendo in modo spartano: ad esempio il suo banchetto di nozze si ridusse ad un frettoloso cappuccino con sette amici presenti. Fu fustigatore delle pur minime mollezze, sì da risultare un esempio di sistema di vita. Il rigore morale, unito alla missione di azione e di fede, anche per mezzo della penna, fu esemplare riferimento per i suoi contemporanei.

Scoppiata la II guerra mondiale, si arruolò ancora volontario e fu inviato sul fronte libico-egiziano nel 29° artiglieria. Sul fronte egiziano portò con sé un quaderno in cui annotava pensieri per un nuovo libro sulla Gioventù Fascista, che andò purtroppo perduto: si sarebbe intitolato “Tempo di sintesi”. E’ rimasta solamente l’idea generale scritta in una pagina dallo stesso Ricci: “Il libro esamina anzitutto lo stato della gioventù fascista.

I candidi, i tiepidi, i profittatori, i combattenti. La minoranza attiva e la massa plastica. Anacronismo delle due torri d’avorio, la intellettuale e la politica. Postulato dell’uomo totale nello Stato totalitario. L’unità fascista sorge da molteplicità di motivi, di tendenze, di esigenze. Assorbe e trascende gli imperativi del nazionalismo e del socialismo, dell’etica e dell’economia, dell’attivismo e della cultura.

Le esalta nella sua universalità negandone i particolarismi singoli. Fine del frammentario e avvento della sintesi. Questa non è confusione, perché il ritmo della storia alterna le fasi della giustizia sociale e della potenza imperiale, ciascuna esigenza ponendosi periodicamente in primo piano senza annullare le altre. Questa sintesi non riguarda solo il corso d’un moto politico ma investe la personalità umana e la storia civile, morale, intellettuale in tutti i suoi aspetti.

Tempo, dunque, gloriosamente unitario tra le varie facoltà e attività dell’uomo, tra le varie discipline della pratica e del pensiero, e nell’interno di ciascuna. Tempo che ripiglia, con in più l’unità politica e la millenaria esperienza spirituale, la stagione più fertile dello spirito italiano, la sua tradizione più vera, la sua più creatrice armonia.

Sintesi, che risolve le antitesi della modernità europea e soprattutto francese: somma politica e vitale, di conoscenza e di azione, d’intelletto e di fede”. Insomma una fase compiuta della sintesi Fascista, di cui si sarebbero dovute far carico le nuove generazioni. Il tema della classe dirigente è peraltro centrale nel pensiero di Ricci. Egli mirava dichiaratamente alla formazione dei nuclei di una nuova dirigenza intellettuale e politica tra i giovani della seconda generazione Fascista.

Nel gennaio 1941 scrisse ai genitori: “Ai due ragazzi (i figli, ndr) penso sempre con orgoglio ed entusiasmo. Siamo qui anche per loro, perché questi piccini vivano in un mondo meno ladro; e perché la sia finita con gl’inglesi e coi loro degni fratelli d’oltremare, ma anche con qualche inglese d’Italia”.

In Libia, nel Gebel Cirenaico, verso le 9 della mattina del 2 febbraio 1941, la sua batteria fu attaccata presso un pozzo montagnoso tra Barce e Cirene, vicino a Bir Gandula, ed egli fu mitragliato da uno Spitfire inglese. Oggi è sepolto nel sacrario di Bari.

(1905-1941)





martedì 6 aprile 2010

GIOVANNI GENTILE (1875-1944)

I Personaggi del Fascismo





GIOVANNI GENTILE (1875-1944)


"L'ideologo del Fascismo"



Nato a Castelvetrano nel Trapanese il 30 maggio 1875, figlio di Giovanni e Teresa, Giovanni Gentile trascorse la sua infanzia a Campobello di Mazara, dove la famiglia si era trasferita. Frequentò il liceo Ximenes a Trapani e durante l’ultimo anno, su suggerimento del suo Professore di greco Gaetano Rota Rossi, decise di partecipare al concorso per quattro posti d'interno alla Scuola Normale Superiore di Pisa, con tema su “La poesia civile del Parini e dell'Alfieri”.

Dopo essere stato ammesso, si iscrisse alla facoltà di Lettere e di Filosofia. L'esperienza presso l'ateneo pisano influirà in maniera determinante sul suo pensiero e sulle sue scelte culturali e politiche.

La Scuola Superiore di Pisa infatti, oltre ad essere l'istituto scientifico più prestigioso del Regno, aveva avviato uno studio filologico e storico sulla letteratura Italiana, nonché sul ruolo del pensiero Italiano all'interno della filosofia europea. Tale impostazione era in linea con l'esigenza post-unitaria di cercare di rintracciare storicamente, e fondare, l'unità della penisola non solo dal punto di vista politico, ma anche culturale e spirituale.

Gentile fece sua questa preoccupazione e cercò, in particolar modo nelle opere storiche, di meglio definire e ricostruire la storia spirituale d'Italia, ponendo come momento chiave il Risorgimento.

Sotto l'insegnamento storico di Alessandro D'Ancona e filosofico di Donato Jaia, Gentile iniziò a pubblicare i suoi primi articoli. L’influenza dei due Professori fu antitetica: mentre il primo, pisano, seguace del metodo storico, veniva dalla storiografia positivista e da ambienti liberali, il secondo, siciliano come Gentile, era un hegeliano seguace di Spaventa e come quest'ultimo aveva frequentato il Seminario rinunciando poi al Sacerdozio.

Queste due personalità costituirono, nello svolgimento del pensiero filosofico di Gentile, due esigenze diverse ma allo stesso tempo conciliabili circa l'attenzione filologica per i documenti e per i testi e per l'interpretazione spaventiana della filosofia di Hegel.

Oltre all'influenza esercitata dai suoi due maestri, fu determinante negli anni trascorsi a Pisa, l'incontro con Benedetto Croce. Il loro carteggio, che rappresenta uno dei documenti centrali per la ricostruzione storica della cultura Italiana del periodo, iniziò nel 1896 e si protrasse fino all'adesione di Gentile al PNF nel 1923.

La discussione tra i due si svolse all'inizio su argomenti storici e letterari; in seguito, l'argomento principe divenne la filosofia, avendo Gentile deciso, sotto la spinta di Jaia, di laurearsi in filosofia. Col passare del tempo l'amicizia tra i due si rafforzò fino a diventare cruciale per la formazione e lo sviluppo del pensiero di entrambi, nonché per la carriera accademica di Gentile, dal momento che questi, al contrario di Croce, non aveva a disposizione una base economica tale da esentarlo dall'insegnamento, che peraltro Gentile sentì come una missione.

La base della discussione con Croce fu l'idealismo, che accomunò per un verso i due filosofi ma che al tempo stesso li divise a causa di alcune divergenze, sempre attenuate in nome della loro amicizia, eppure sempre latenti, che saranno il motivo della loro separazione.

I due combatterono insieme la stessa guerra, contro il positivismo e le degenerazioni dell università patria. Il loro scopo fu quello di costituire un polo filosofico crescente, per dimensioni e qualità, all'interno della cultura nazionale. Fondarono una rivista, La Critica, nel 1903 e lavorarono incessantemente alla creazione di nuove collane editoriali e alla pubblicazione delle loro rispettive opere.

Dopo la laurea a Pisa, e un corso di perfezionamento a Firenze, Gentile iniziò la sua carriera di insegnante, ottenendo una cattedra a Campobasso, al Liceo Mario Pagano.

La sua aspirazione però fu, sin dall'inizio, quella di ottenere una cattedra universitaria; dopo una serie di tentativi andanti a vuoto e sconfitte in altrettanti concorsi, Gentile riuscì ad ottenere una cattedra di storia della filosofia all'Università di Palermo nel 1906. Malgrado ambisse ad una cattedra a Napoli, per la vicinanza con Croce e con gli ambienti culturali napoletani ben più vivi di quelli siciliani, l'esperienza e l'insegnamento a Palermo furono per lui determinanti.

Nella città siciliana, infatti, cominciò a crearsi intorno alla sua cattedra e agli incontri del circolo culturale di Giuseppe Pojero, quella scuola di allievi che contribuirono non poco alla diffusione dell'idealismo attuale, della sua filosofia che si arricchì in quegli anni di testi importanti: tra questi “L'atto del pensare come atto puro” del 1912 che ne costituirà il manifesto, e “La riforma della dialettica hegeliana” del 1913, che sarà la base dell'opera sistematica dal titolo “La teoria generale dello spirito come atto puro” del 1916, una sintesi delle speculazioni che Gentile sviluppò lungo la serie di testi, discorsi e polemiche su argomenti filosofici trattati nei primi anni della sua carriera universitaria, prima a Palermo e poi a Pisa, e che è la prima vera sistemazione dei suoi principj e a cui farà seguito il “Sistema di logica come teoria del conoscere” del 1917, la sua opera più voluminosa e complessa.

L'insegnamento, oltre ad offrirgli la possibilità di continuare i suoi studi e sostentare la sua numerosa famiglia, gli diede quella di toccare con mano il disagio della scuola italiana, che sin dall'inizio, aveva giudicato ancora inadatta a contribuire alla fortificazione dell'unità nazionale e delle sue basi culturali, e incapace di formare una nuova classe dirigente che traghettasse il Paese verso un fulgido destino.

Gentile sentì sempre come una vera e propria missione il suo ruolo di insegnante ed educatore; la sua pedagogia, che è essenzialmente filosofica non può essere staccata né dal suo sistema filosofico, né dal suo progetto di riforma della scuola che attuò nel 1923-24, quand'era Ministro della Pubblica Istruzione, e che dai primi due discende.

L'influenza di Gentile sulla cultura Italiana, accresciutasi nel tempo per merito delle sue pubblicazioni, delle iniziative insieme a Benedetto Croce, e della produzione della sua scuola filosofica, si estese anche grazie ai tanti incarichi che ebbe modo di ricoprire. La sua adesione al Fascismo del 1923, se da un lato costituì la molla della rottura con Croce (rapporto peraltro già incrinato da una polemica apparsa sulla Voce dieci anni prima), dall'altro gli diede la possibilità di accrescere ulteriormente la sua influenza sulla cultura Italiana, grazie anche ad alcune importanti iniziative editoriali: tra queste la più importante, per il peso che ricoprì e che ricopre tutt'ora, è senza dubbio “L'Enciclopedia Italiana”, alla cui composizione collaborarono anche molti intellettuali antifascisti. Nel suo disegno questa opera in volumi doveva costituire un monumento all'unità e alla concordia della cultura Italiana, a cui dovevano contribuire tutti gli studiosi, di qualsiasi credo politico.

Nominato dunque nel 1922 Ministro della Pubblica Istruzione, elaborò l'anno successivo una epocale riforma della scuola destinata a durare fino ad oggi. Essa pose le sue basi sui concetti di meritocrazia; di forte selezione delle capacità individuali sin dalla scuola media inferiore; di funzione sociale e nazionale della struttura scolastica. Iscrittosi al Partito Nazionale Fascista nel 1923, fu Senatore del Regno dal novembre 1922 nonchè Membro del Gran Consiglio del Fascismo. Dimessosi da ministro dopo il delitto Matteotti, si pose alla guida delle Commissioni dei quindici e dei diciotto per lo studio delle riforme costituzionali e svolse un'intensa opera di organizzazione del consenso degli intellettuali.

Redasse infatti nel 1925 il “Manifesto degli intellettuali Fascisti” e, sempre in quell'anno, fu nominato direttore dell'Enciclopedia Italiana (e nel 1932 scrisse la famosa voce “Fascismo”, firmata da Mussolini).

Fu contrario al Concordato tra la Chiesa Cattolica e lo Stato italiano del 1929, benché egli considerasse il Cattolicesimo come la forma storica della spiritualità italiana, poiché puntava su uno Stato etico totalmente garante dell’unità anche religiosa del popolo. Da questo momento in poi il suo ruolo politico si eclisserà definitivamente.

Terminato anche il mandato al Gran Consiglio del Fascismo, fu Direttore della Scuola Normale di Pisa (1932) e Consigliere d’Amministrazione di varie case editrici (Vallecchi, Le Monnier, Bemporad, Sansoni, di cui diventò proprietario nel 1932) e Presidente dell'Istituto Nazionale Fascista di Cultura.

La sua fedeltà al PNF, in cui vide sempre l'espressione del moto Risorgimentale di unità nazionale, lo portò ad aderire nel 1943 alla Repubblica Sociale Italiana, benché ormai confinato da tempo ad un ruolo politico pressoché nullo.

Autore del Discorso agli Italiani del 24 giugno 1943, appello alla concordia nazionale intorno al Duce dopo lo sbarco alleato in Sicilia, fu trucidato barbaramente dalla mala genia partigiana il 15 aprile del 1944 sulla soglia della sua abitazione a Firenze.

(1875-1944)







ALESSANDRO PAVOLINI (1903-1945)

I Personaggi del Fascismo


ALESSANDRO PAVOLINI (1903-1945)

"Il fascista artistico ed intransigente"


Alessandro Pavolini nasce a Firenze il 27 settembre del 1903. E' di ottima famiglia altoborghese: suo padre, Paolo Emilio, che diventerà anche Accademico d'Italia, è un indianista e orientalista di fama internazionale. Alessandro fin da giovanissimo manifesta la sua vocazione per l’attività letteraria. Ad appena dodici anni (1915) fonda un giornaletto scolastico in cui scrive articoli interventisti. E' studente brillante, si laurea in Giurisprudenza e in Scienze Politiche, frequentando due atenei, quello di Firenze e quello di Roma.

A Roma per motivi di studio, si accoda alle colonne fiorentine delle Camicie Nere per la parata finale della Marcia su Roma del 1922, quando Mussolini ha già ricevuto dal Re la nomina a Pesidente del Consiglio dei Ministri. Aderisce così al fascismo, iniziando l’attività politica nel Fascio Fiorentino guidato dagli amici Tullio Tamburini e Marchese Dino Perrone. Si lega in particolare a quest’ultimo ed al Federale di Firenze, il Marchese Luigi Ridolfi. Il Federale lo chiama al suo fianco nel 1927 in qualità di Vicefederale.

In questo periodo l'emergente giovanotto, elegante, ottimo giocatore di tennis, brillante conversatore, abbina alla vita politica un’intensa vita mondana, legato in particolare ai salotti di Carlo e Nello Rosselli. Collaboratore di riviste letterarie, scrittore di saggi politici, si cimentò anche nel romanzo e nel 1928 ottenne un primo buon successo con “Giro d'Italia”. Nel 1929 il Marchese Ridolfi lascia a lui la carica di Federale. Pavolini diviene così, a soli ventisei anni, la massima Autorità Fascista di Firenze.

Nella veste di Federale, Pavolini dà al Fascismo fiorentino una connotazione Aristocratica, culturale, artistica, che grande segno lasciò nella vita della città: mostre di artigiani, mostre d'arte, iniziative letterarie furono tra le molte iniziative di questo Federale.

Tra quelle di maggior successo inaugurate da Pavolini spicca il “Maggio musicale fiorentino”, a tutt'oggi una delle più importanti rassegne artistiche a livello internazionale. E' sempre in questo periodo che Pavolini fonda anche una rivista settimanale, “Il Bargello”, organo della Federazione Giovanile Fascista e arguta rivista letteraria.

Nel 1932 Pavolini viene chiamato a far parte del Direttorio Nazionale del Partito, iniziando così le sue frequentazioni a Roma, dove si trasferirà nel 1934, eletto Deputato. E nella Capitale Pavolini si lega all’altrettanto giovane e brillante Conte Galeazzo Ciano.Pavolini, grazie alla sua fama di scrittore e di organizzatore culturale, viene chiamato a presiedere la Confederazione Professionisti ed Artisti. E con questa carica istituisce i celeberrimi Littoriali.

Pavolini inizia anche a scrivere sul Corriere della Sera, lasciando il Popolo d'Italia, dove aveva scritto alcuni articoli. Scoppiata la guerra d’Africa, parte volontario al fianco del suo amico Galeazzo Ciano nella celeberrima “Disperata”. Durante la guerra Pavolini trova anche il tempo di mandare corrispondenze al Corriere della Sera, e dall'esperienza bellica in Africa trarrà il suo secondo libro intitolato appunto “La Disperata”.

Finita l’avventura africana, continua la sua esperienza giornalistica al Corriere della Sera inviando dall’estero corrispondenze, che poi raccoglierà in un volume. In questo periodo inizia a frequentare l’attrice Doris Duranti, senza tuttavia sposarla.

Il 31 ottobre 1939 è nominato Ministro della Cultura Popolare del quinto gabinetto Mussolini. Nel frattempo dà alle stampe con successo il suo ultimo romanzo “Scomparsa d'Angela”. Nella veste di Ministro si circonda di sette Direzioni Generali: stampa estera, stampa nazionale, propaganda, cinema, turismo, teatro, servizi amministrativi. Sotto la sua vigilanza operano, tra gli altri, l'EIAR, la SIAE (Società Italiana Autori ed Editori) ed altri enti, tra cui anche il RACI (Reale Automobile Club d’Italia).

Favorevole all’avvicinamento alla Germania nazionalsocialista ed all’entrata in guerra, contribuisce all’esonero di Badoglio da Capo di Stato Maggiore. Col volgere negativo del conflitto si dimette e il 5 febbraio 1943 assume la direzione del quotidiano “Il Messaggero”, portandovi tutto il suo impeto bellicista.

Con le vicende del 25 luglio 1943 il nuovo Presidente del Consiglio Badoglio, deciso a vendicarsi del “nemico” Pavolini, emette contro di lui un’ordinanza d’arresto; tuttavia Pavolini riesce a riparare in Germania. In Prussia, a Konigsberg si incontrerà col figlio del Duce, Vittorio, già responsabile per la cinematografia.

Da una radio tedesca Pavolini e Vittorio Mussolini si affrettano immediatamente a pronunciare parole di riscossa. Dopo la liberazione di Mussolini (15 settembre 1943), Pavolini partecipa alla fondazione della Repubblica Sociale Italiana, diventando il Segretario del nuovo Partito Fascista Repubblicano (PFR). ‘E Pavolini a sollecitare un Mussolini ansioso di ritirarsi, affinché torni ad essere il Duce del nuovo Stato.

Le vicende di Pavolini nella RSI iniziano con il Congresso di Verona, costitutivo del PFR, al quale Pavolini dà un apporto significativo indirizzato ad una specie di recupero delle parole d’ordine del veterofascismo, connotandolo in senso vagamente socialistoide. Una promessa venne chiaramente espressa da Pavolini: “I traditori del 25 luglio dovranno pagare!”.

L’assoluta volontà di vendetta perseguita più da un ormai fanatico Pavolini piuttosto che dallo stesso Duce, portò al famigerato processo di Verona, assolutamente irregolare e basato sull’assurdo giuridico del Decreto 11/11/43, norma penale ad hoc con effetti retroattivi, vera e propria formalizzazione giuridica della vendetta; i giudici furono inoltre scelti nientemeno che da Pavolini stesso. Peraltro solo sei dei diciannove ricercati erano stati arrestati: Ciano, Marinelli, Gottardi, De Bono, Pareschi.

Tutti furono in tre giorni condannati a morte, salvo Cianetti, condannato a trent’anni di prigione per aver ritrattato il giorno successivo la sua adesione all'ordine del giorno Grandi. Tuttavia la notte del 10 gennaio del 1944 furono preparate dai condannati le domande di grazia; ma nella confusa organizzazione del nuovo Stato, non era stata definita l’autorità cui un’eventuale domande di grazia dovesse rivolgersi. L'avvocato Cersosimo, Istruttore del processo, suggerì: a Pavolini, Segretario del Partito.

Tuttavia, per la contrarietà di alcuni esponenti della RSI, la domanda fu inoltrata prima a Pisenti, Ministro della Giustizia, poi a Buffarini Guidi, Ministro dell'Interno, quindi al Console della GNR Italo Vianini, ispettore della V Zona, e quindi competente per territorio. Così, con una procedura contorta (le domande non furono espressamente respinte ma semplicemente "non inoltrate", e con lo stesso provvedimento Vianini ordinava l'esecuzione della sentenza) i cinque condannati, tra cui l’Eroe Quadrumviro De Bono, furono avviati alla morte, senza che il Duce avesse visto le domande di grazia. A nulla valse la vecchia amicizia che legava Ciano ad un ormai esaltato Pavolini.

Il 30 giugno 1944 Pavolini fonda, quale Comandante Generale, le Brigate Nere come trasformazione del Partito in unità militari: i Commissari Federali diventano Comandanti di Brigata. Tutti gli iscritti al PFR, di età compresa tra i 18 e i 60 anni, possono arruolarsi nelle Brigate nere. I compiti delle Brigate Nere, che spesso raccolsero burocrati ed impiegati poco avvezzi all’uso delle armi, non furono in realtà ben definiti, salvo l’imprescindibile difesa del Partito; in teoria dovevano essere unità combattenti, venendone escluso l'impiego per azioni di polizia.

Di fatto i tedeschi non le vollero mai al fronte e i combattimenti si svolsero solo nella guerra civile contro le formazioni partigiane. Tuttavia fu il caos a regnare, poiché le diverse Federazioni Provinciali costituirono la propria Brigata Nera con criterj diversi e, per mancanza di graduati, si assisté ad eventi curiosi: Caporali che si autonominavano Colonnelli, o, come avvenne a Verona, Marescialli di Marina che prendevano motu proprio il comando di un Reggimento. Questa struttura alquanto caotica divenne insopportabile per i tedeschi, che se ne servirono solo in operazioni di polizia e di rastrellamento: proprio il compito che era stato escluso a priori.

Ormai totalmente slegato dalla realtà della disfatta, ancora a cavallo tra il 1944 ed il 1945 Pavolini scriveva delle sue Brigate Nere: “Le Brigate nere allineano, dai vecchi ai ragazzi, gli uomini di ogni età. O meglio: gli uomini che non hanno età, se non quella del proprio spirito.(…) anelano al combattimento contro il nemico esterno, ma sanno che in una guerra come l'attuale, guerra di religione, non c’è differenza fra nemico di fuori e di dentro. (…) sono una famiglia, questa famiglia ha un antenato: lo Squadrismo; un blasone: il sacrificio di sangue; una genitrice: l'Idea fascista; una guida, un esempio, una dedizione assoluta e un affetto supremo: Mussolini”.

Non si preoccupò di sé stesso: organizzò la fuga in Svizzera della sola sua amante. Vaneggiò di raccogliere ventimila fedelissimi per costituire l’ultima resistenza in Valtellina: là voleva far trasportare anche le ossa di Dante, simbolo dell’Italianità.

Si avviò invece con il Duce, il 25 aprile del 1945 al lungolago di Dongo, dove venne massacrato dai rossi, dopo un inutile tentativo di fuga a nuoto nel lago di Como, gridando “Viva l'Italia!”.

Alessandro Pavolini



(1903-1945)